Desenzano del Garda: USANZE DI UN ALTRO TEMPO in casa Marcolini

| 1 dicembre 2006
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In casa tutti parlavano solo dialetto, solamente a scuola si imparava l’italiano e le sue regole grammaticali, prima con le tre maestre che insegnavano nella prima, seconda, terza elementare, poi con il maestro Marcolini che teneva la quarta e la quinta insieme. L’unico supporto scolastico che dava il maestro ai suoi figli era di mandarli dal mezzadro con questa o quella istruzione detta in dialetto e di chiedere loro di riferire la risposta in italiano. Il futuro professore di greco e latino, studioso di lingue comparate, incontrava da piccolo difficoltà nel trovare il corrispettivo di ‘mesader’, di ‘maser’ o degli attrezzi d’uso quotidiano.

Al professor Mario Marcolini, insegnante benemerito del liceo di Desenzano ora in pensione, si incrina la voce mentre rivede nel ricordo le faccine vispe dei due suoi fratellini durante la vigilia di Natale. La sua non doveva essere molto diversa, data la schiettezza di cui era dotato da piccolo. Si era a cavallo della prima guerra mondiale, poiché lui era nato nel 1913, e, malgrado i tempi grami, in casa si celebrava la preparazione alla nascita del Bambinello secondo abitudini codificate chissà da quale generazione. Appena buio, in famiglia la persona più anziana iniziava a recitare il Rosario, seguiva la Salve Regina e quindi le lunghe litanie dei Santi dai nomi così curiosi. I tre bambini non riuscivano a non guardarsi con la solennità di circostanza durante tutto quel tempo di preghiere e quando i loro occhi si incrociavano, scattava la ridarella a stento frenata dal timore riverenziale verso il padre. Ma l’esuberanza cresceva, quando gli adulti in processione seguivano il più autorevole, che passava di stanza in stanza aspergendo con un rametto verde, imbevuto dell’acqua santa di una ciotolina. Finita questa cerimonia, tutti sorseggiavano del vino caldo e qualche goccia andava anche ai ragazzini. Quindi ci si metteva a tavola per un pranzo rigorosamente di magro, però fuori dal solito. Vi erano i tortellini di zucca e piatto principale il pesce che lo zio Angelo veniva ad acquistare la mattina a Desenzano e poi portava in treno a Remedello. Erano o coregoni o trotelle.A poco a poco ritornano vive, al racconto del professore novantatreenne, le persone che hanno costituito il mondo degli affetti della sua infanzia. Primo a farci visita è il nonno, nato nel 1837, agricoltore della campagna di Remedello di Sopra, come tutta la sua famiglia. Secondo le leggi del Lombardo Veneto asburgico, compiuti i vent’anni, si era dovuto presentare come coscritto al Distretto di competenza. Con i coetanei presenti aveva ricevuto un numero; tra altri anche il suo era stato estratto e doveva arruolarsi. Quando aveva riferito la notizia a casa, suo padre, il bisnonno del professore, gli aveva chiesto: “ Do’ set riat co le parole co la Maria?” . Il figlio gli aveva dato la spiegazione richiesta e il genitore gli aveva risposto: “Alura va.” La fidanzata lo avrebbe aspettato per otto anni. Infatti il ragazzo, dopo aver militato nel reggimento di un duca tedesco a Colonia, in seguito alla battaglia di San Martino-Solferino, secondo gli accordi di pace degli Asburgo col nuovo Regno d’Italia, era stato inserito nell’esercito italiano e mandato a combattere il brigantaggio nel cessato Regno dei Borboni. Quando aveva avuto la possibilità, rinunciando alla carriera di ufficiale che gli era stata prospettata avendo raggiunto il grado di sergente, aveva preferito ritornare alla vita di agricoltore a Remedello, Subito si era sposato e con l’aiuto della nonna, lavorando campo dopo campo, avevano costruito la casa per la loro famiglia allargata con l’arrivo di cinque figli: tre maschi e due femmine. Da adulti, Giuseppino era diventato prete sacramentino, Angelo aveva preso casa a Brescia, con i genitori e le sorelle era rimasto il maestro Marcolini, che a sua volta si era sposato e aveva formato la sua famiglia nella casa paterna. Da quest’ultimo matrimonio erano nati i tre fratellini: Rino, Mario, Francesco. Tutti convivevano senza sentirsi a disagio, perché così doveva essere e ognuno sapeva quali erano i propri doveri secondo una codificazione non scritta ma vissuta da sempre. Il maestro Marcolini per i suoi tre bambini alla vigilia di Santa Lucia spargeva il fieno sul davanzale della finestra della cucina e per la corte, fino ad arrivare alla strada; ne spargeva tanto, così l’asinello della Santa si sarebbe fermato più a lungo alla loro casa. A cena la mamma sollecitava i bimbetti a far presto per non essere sorpresi svegli dalla Visitatrice e ad andare a letto subito, mentre si sentivano i campanelli suonare. Il giorno dopo i piccolini trovavano sul cassettone delle bellissime arance. La magia rimase fino a che ebbero compiuto gli otto anni, poi fecero svanire l’incanto le battute rivelatrici dei compagni più grandi, la frase ripetuta della nonna: “A Santa Lucia el portafoi del papà el pians.”

Di: Amelia dusi

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