La bella storia del camion tedesco-americano MAN

| 1 febbraio 2007
gennaio 2007 013-Giacomo Acerbi

Quando nel maggio del 1945 gli Americani arrivarono a Monaco, misero fine pure alla ritirata di quella parte dell’esercito tedesco che fuggiva dai Balcani trascinandosi dietro, come forza lavoro, i superstiti dei soldati italiani a suo tempo di stanza in Peloponneso…

… Tra questi, provato nel fisico e nello spirito, c’era Giacomo Acerbi. Si era sentito più volte vicino alla morte e aveva visto troppe volte la morte falciare i suoi compagni nelle tante occasioni pericolose di ogni giorno durante l’ultimo anno e mezzo, ma soprattutto durante l’ultimo inverno nei boschi delle zone della Drina e della Sava. Una volta raggiunto però il campo di smistamento presso Innsbruk, dove venivano convogliati i vinti e i loro prigionieri del sud-est dell’Europa, la volontà di tornare a casa aveva dato nuova energia a Giacomo. Aveva cercato qualche ufficiale americano che lo aiutasse e si era imbattuto in un maggiore figlio di emigranti italiani nel Nord America. Questi aveva dato ascolto a lui e ai suoi scalcinati compagni, gli aveva chiesto da dove venisse e cosa sapesse fare. Saputo che era di Brescia e che era stato autiere, lo aveva portato in un vasto spazio, in cui si trovavano allineati centinaia di automezzi requisiti all’esercito vinto. e gli propose di caricare su un camion di suo gradimento sessanta tra bresciani e bergamaschi per portarli a Brescia. Qui in piazza Vescovado avrebbe trovato chi li avrebbe aiutati a raggiungere casa. Giacomo scelse un grosso camion MAN nuovo di zecca e in poco tempo ebbe lasciapassare americano, benzina americana e sessanta macilenti compagni di viaggio sul cassone. Sembrava la migliore realizzazione dei suoi sogni, ma alla discesa che da Innsbruk porta verso sud, strada in forte pendenza e allora sterrata con grosse buche, si accorse che tutti i freni non funzionavano; inutilmente tirava il freno a mano: il dado era stato svitato. Il camion prese velocità e i viaggiatori di dietro incominciarono a buttarsi a terra. Per fortuna si presentò una curva con un muretto d’argine e lì Giacomo diresse l’automezzo, che si fermò ammaccando i voluminosi parafanghi. Mentre con il compagno di guida metteva in sesto il veicolo, arrivavano azzoppati quelli che si erano gettati dal camion e chi era rimasto nel cassone si tastava le ammaccature ricevute andando contro la cabina al momento dell’assai brusco arresto. Tutti si risistemarono ai loro posti e si riprese il viaggio giù per il Brennero verso casa nella notte buia. A mezzogiorno della mattina seguente trovarono a Brescia davanti al Duomo cibo caldo e aiuto per raggiungere ognuno il proprio paese. A Giacomo dissero di proseguire col camion MAN fino dalla sua famiglia a Pralboino e di portare con sé chi abitava in quella zona. Così avvenne e il grosso veicolo, dato che ancora non c’era in paese la stazione dei carabinieri, trovò provvisoria sistemazione nel cortile di casa. Il giovanotto, già bambino vivace, era pieno di voglia di vivere e di trovare un impegno serio, perciò nel giro di poco tempo sentì l’urgenza di consegnare a qualcuno il camion, malgrado in paese tutti gli dicessero: “Ma lasel lé, t’edaret che argü egnarà a töl !” Si accordò con l’amico fraterno Fausto, che a sua volta cercava di recuperare due piccoli autobus dell’azienda familiare, unico loro bene, requisiti dall’esercito tedesco nella sua ritirata. Insieme, col camion MAN una mattina si diressero a Brescia. Andarono presso l’agenzia che conoscevano meglio, il Consorzio Agrario Bresciano, ed esposero i rispettivi problemi. Qui i dirigenti videro il grosso camion, i due giovanotti pieni d’energia e gli dissero: “Guardate ragazzi: i mulini di qui non hanno da mesi grano da macinare; a Ravenna c’è l’unico magazzino pieno di grano, già sequestrato dai tedeschi per mandarlo in Germania; voi, col camion e i sacchi che vi diamo, andate là e ritornate carichi.” Così Giacomo e Fausto partirono e percorsero strade impraticabili, superarono il ponte di barche a Belforte sul Po; fecero il loro carico e ritornarono con la grande paura di venire assaliti dalle bande di chi in quel periodo cercava di impossessarsi di tutto. Videro un’Italia devastata e disgraziata a causa del conflitto. Raggiunsero comunque in due giorni Brescia con la missione compiuta. Qui furono fatte le consegne ai vari mulini della provincia e i responsabili dissero: “Adesso col camion andate a Desenzano al mulino Colombo, che da mesi non ha grano e lo chiede in continuazione.” In mattinata Fausto e Giacomo entravano dal cancello del mulino di via Mezzocolle. Subito gli operai li circondavano e iniziarono le operazioni di scarico. La Gina, moglie del Busù, il gestore della trattoria al Porto Vecchio, la quale lavorava in casa dei Colombo, corse nelle stanze ad avvertire la giovane padrona: “Signorina, signorina, venga a vedere! Hanno portato il grano e sono due bei ragazzi.” Maria Adelaide aveva sbirciato dalla finestra in cortile e aveva visto Giacomo e Fausto in piena attività. Poi tutti erano tornati alle loro faccende a Brescia e a Desenzano. Qualche settimana più tardi, di nuovo il Consorzio mandò il camion MAN con i due autisti a Desenzano per una consegna e questa volta i due ragazzi furono invitati a fermarsi a mangiare per mezzogiorno. In questo modo conobbero la famiglia Colombo. A Giacomo piacque molto la bellezza riservata di Maria Adelaide, chiamata dal padre Made. La ragazza, che doveva andare a Brescia per delle pratiche relative al mulino, chiese se poteva salire sul MAN, dato che la sua Topolino con le bombole di gasolina non funzionava. Fausto allora salì sul cassone e lasciò il posto, vicino a Giacomo, alla signorina. Durante il tragitto verso la città in cabina si parlò dei problemi del momento e l’autista venne a sapere che Maria Adelaide si sobbarcava da sola le responsabilità del mulino dopo la dolorosa morte della madre nel ’39 e la malattia del padre. “Ha forse un fidanzato che l’aiuterà?” disse lui. Lei: “Si, c’è; ma…” detto con accento mesto e rassegnato. Lui: “Permette che venga a trovarla con intenzioni serie?” Lei, contenta: “Si!” . Era luglio e a dicembre già era stata fatta domanda ufficiale di matrimonio al signor Colombo. A marzo del 1946 erano marito e moglie. Si capirono e hanno continuato a essere solidali tra loro nella buona e nella cattiva sorte come raramente capita di vedere.

Di: Amelia e Pia Dusi

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