“La soprano”

Il 7 novembre 2024, presso la Biblioteca A.Rosmini di Toscolano, si è svolta la commemorazione dei 100 anni dal debutto di Giuseppina Cobelli, avvenuto ad Amsterdam con la Gioconda di Ponchielli.
La serata è stata un dialogo fra Maurizio Righetti, autore del volume “Giuseppina Cobelli, il soprano gardesano”, il M° Gerardo Chimini e il M° Roberto Codazzi, direttore del museo del violino d Cremona. Madernese di nascita, Giuseppina (1898-1948) fu personaggio di primo piano nel mondo della lirica, e per mezzo secolo è curiosamente caduto nell’oblio, o nella memoria di chi l’aveva conosciuta. “Si la Duse avait été une artiste lyrique, elle aurait chanté comme M.me Cobelli”, così la critica onorava Giuseppina all’apice della sua carriera. La Cobelli sapeva infondere nel canto e nella recitazione la passione intensa e coinvolgente delle dame romantiche da libretto. A lei dedico questa prosa di piccole memorie.
Esiste un luogo a Maderno in cui il tempo si è fermato a fine Ottocento, o inizi Novecento, dietro a un alto muro di cinta. O perlomeno esiste ancora nei frammenti di ricordo di un ragazzetto degli anni ’80 cresciuto a cioccolato e cartoni di robot giapponesi, catturato e imbrigliato in una fantasia non appena passato il portone d’ingresso. Ricordo i passi sulla ghiaia, e la siepe che faceva un arco, sopra il passaggio, un odore di ferro lavorato, di vernice e di cane da caccia, il quieto Felix che sostava ozioso nel suo capanno; e l’aprirsi dello sfondo di un caseggiato, dai colori smunti rosa e biancastro, si apriva un cortile e una porta ampia e severa. Non sapevo dove guardare, la mia nuova casa era qualcosa di inatteso, e di terribilmente nuovo, nel suo aspetto antico. La grande scalinata con le ringhiere che avrei percorso mille volte, il marmo dei gradini e le statue decorative, gli strani oggetti – delle ruote? – che erano messi fra i vasi ricolmi di fiori, un cocker di pietra che stava buono e non abbaiava mai, un nano da giardino, Dotto, sull’altra scalinata che portava alla casa di zio Chichì. Tutto nuovo e strano, una terra inesplorata e riemersa da chissà quale passato sepolto, un grande giardino con filari di vite che sarebbe divenuto il mio regno. Questo era il pezzo d’Italia che il destino dei prossimi anni mi regalava, uno specchio dove il passato sembrava essere vivo e in pieno svolgimento. Ci si sarebbe aspettato un biroccio col cavallo in mezzo al cortile, ma quel giorno non c’era. La vita in quel territorio felicemente intatto dal mondo moderno, o almeno così mi sembrava, cominciava a ingranare, e lo spirito più fresco lo incarnavamo noi, mia sorella ed io, che nella strada delle Fontane eravamo gli unici esseri in età scolare, sfrenati scalpiccianti piedini che battevano l’asfalto vecchio di una via addormentata e inarcata sul proprio evo come le schiene delle anziane che lavavano ancora i panni chine sui fontanili. Odore di sapone di Marsiglia, lo sento acutamente, sì. Gli odori, già, sanno testimoniare il tempo andato, attecchiti come una muffa sui muri in cui hanno vissuto generazioni su generazioni. Nella casa delle vecchie zie di papà lo si intendeva nettamente, quel lascito di passato, quella patina che coloriva tutto, i mobili le foto di bellezze remote, di avi barbuti e glorie d’antan, sui volti della Maria, scavato e magro, e della Vittoria, più corposo e lucido. Le due zitelle si erano integrate in quella enorme casa patriarcale, quasi a divenirne ingranaggi silenziosi e segreti, complementari come erano ei loro caratteri diversissimi. Remissiva e metodica, Maria si occupava di custodire il giardino, provvedere a fiori, orto, rastrellare la ghiaia con cura, dare da mangiare a galline e conigli, lavare al lavatoio dietro casa. La ‘Turgì’ invece era un tipo autoritario, eccellente sarta, con una clientela importante, che dirigeva e cucinava e dettava legge come sapeva usare ago e filo. Da quando il bisnonno se n’era andato per i cieli, le cose si governavano così, in modo inalterato. La poltrona del patriarca era ancora lì, in un angolo della casa da cui l’Erculiano avrebbe potuto tenere tutti sotto controllo, e controllare alla pendola polverosa, che il tempo non passasse mai. Lo spirito del bisnonno, credo sia ancora là ad aspettare. La vita ripetitiva delle due zie procedeva come una ruota della macina in cantina, sbriciolava i giorni e ne caricava altri, implacabile attorno al suo perno. Eppure la monotonia si legava a elementi esterni, in modo curioso, filtrato attraverso immagini e mitologie proprie di due donne sole, incastrate in quell’angolo del secolo. Il filo indiretto col mondo – la Maria ogni due giorni usciva solo per andare a cambiare i fiori al cimitero, la Vittoria restava a presidiare la caserma – erano più che altro le nipoti, figlie del Chichì e dell’Ernesta, e talvolta le clienti più pittoresche e strampalate, che portavano le notizie dal mondo esterno. Mondo esterno da cui eravamo giunti anche noi, a perturbare la quiete dell’orologio. Prima guardinghe e sospettose, cominciarono pian piano a mostrarsi più aperte e rivelare quel mondo intessuto di ricordi in cui giocoforza erano vive e appassionate. Le distanze inimmaginabili, parevano dare alle loro esistenze un contrappeso avventuroso: i parenti americani, i racconti dei tempi della guerra, i defunti e i tempi d’oro della famiglia, quando si avevano palazzi e carrozze, eccetera; ma il punto in cui l’orgoglio di entrambe le zie si faceva più vivido, tanto da brillare loro negli occhi, era lei: la soprano famosa, la Giuseppina, che come a una diva compete si era ritagliata una propria leggenda, con tanto di aneddoti e icone e miti, nel cuore delle due signore. La parentela con la Cobelli era una cuginanza paterna, un filo vago, che il passato sospendeva tra l’aerea polvere delle stanze, essa danzava davanti alla foto in cui una ridondante cascata di tessuto bianco faceva da piedistallo alla diva: la forte presenza della venerata si sentiva, anche a quarant’anni dalla scomparsa. Così s’immaginavano somiglianze fisiche con mia sorella, si prendeva una delle foto più celebri e si dissertava di vite parallele e altri capricci della storia. Uno scrigno in cui godevano la gloria riflessa della cantante, che pareva dovesse passare a momenti, e che tutto dovesse essere elegante e in ordine per il suo fantomatico arrivo. Quando Barbara cominciò a cantare, allora il quadro era completo. La stella sempre più brillante aveva ammiccato, sulla sorte delle due si prodigavano nuove immaginazioni, il tempo glorioso della famiglia era rinato, il ferro battuto del nonno cingeva un giardino che sapeva d’immortale. Quando sarà di ritorno da Buenos Aires?
PAOLO VERONESE
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