Montichiari (Brescia) – GIACOMO CERUTI. Il Pitocchetto – Storie di ritratti
La fame nell’Italia del 1700
Volge l’anno 1963, Roberto Longhi, il più importante critico del XX secolo, presenta a Palazzo Reale di Milano la grande mostra “I pittori della realtà in Lombardia” nella quale emerge il “genio non solo pittorico ma totalmente umano di Giacomo Ceruti” che, nel bel mezzo del Settecento, dipinge al naturale tanti “pitocchi” in tele grandi come pale d’altare. Il critico si chiede il perchè e chi potessero essere i committenti, concludendo che “una risposta vera, se mai verrà, sarà soltanto per merito di serie ricerche sulle vicende e gli umori segreti della società bresciana del Settecento…per riesumazione di fatti certi e di persone vive.” Oreste Marini, fin dai suoi giovani anni, convinto che Giacomo Ceruti sia il più grande pittore del Settecento d’Europa, raccoglie la sfida del suo grande maestro e si mette all’opera approdando a risultati insperati ottenendo il plauso dello stesso Longhi che pubblica i due saggi sulla rivista “Paragone” da lui diretta: “Qualcosa per la vicenda del Pitocchetto. I committenti bresciani del Ceruti: A) Il Ceruti nella Galleria Barbisoni, 1966. B) Il Ceruti nella Galleria Avogadro, 1968.” Gianfranco Contini, nel volume dedicato agli studi di Roberto Longhi, “Da Cimabue a Morandi”, ricorda l’importanza di queste ricerche scrivendo: “Longhi potè alfine pubblicare uno scritto di Oreste Marini dove si identificavano i committenti del Ceruti e se ne precisava la cornice socio-politica.” Ora dobbiamo al Museo Lechi la visione del ritratto del personaggio amico del Ceruti, il Cav. Giovanni Avogadro, famiglia nella quale si trovavano i più intensi dipinti di “pitocchi”, di cui è qui presente la commovente povera donna che fa la calza, ora entrambi appartenenti al museo stesso. Tra le opere esposte vediamo anche lo strepitoso binomio “Il bravo” e “La vecchia contadina”, ora felicemente approdati alla Collezione Sorlini, l’ “Autoritratto in veste di pitocco pellegrino” dal Museo di Abano Terme e vari ritratti di nobili dell’epoca, fra cui esponenti della famiglia dei conti Lechi. Da questa mostra parte l’invito a perfezionare la conoscenza del nostro gran pittore, presente nella collezione della Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia (dove si trova il maggior nucleo di opere dell’artista in collezione pubblica) nonché alla Casa-Museo Ugo da Como sulla rocca del vicino Comune di Lonato dove è esposto il ritratto del marchese Carlo Cosimo Medici di Marignano dipinto dal Ceruti accostato a ritratti venatori veneti del XVIII secolo e alla Fondazione Luciano Sorlini di Carzago di Calvagese, non lontano dal Lago di Garda, dove è possibile ammirare la ciclopica tela (cm 203×620) “Diana e le ninfe sorprese da Atteone” che il Ceruti dipinse per il Palazzo Arconati-Visconti di Milano, opera che ci dimostra da un lato la versatilità del pittore qui impegnato in una veste desueta e dall’altro la passione venatoria dei suoi committenti. Ma vediamo ora il motivo di concomitanza con l’Expo, partendo da una frase di Giovanni Testori (1967): “Presso il Ceruti tutto si risolse, tutto fu nient’altro che ‘ritratto’; e, a causa dell’ampiezza e totale umanità di sguardo e riflessione, ‘ritratto’ del mondo intero.” La produzione del Ceruti, che ritrae con spiccato realismo dando la stessa dignità a uomini e donne di classi sociali diverse, è indubbia testimonianza e difesa delle necessità vitali degli ultimi: il pane quotidiano. In proposito leggiamo un paio di righe citate nel lontano studio di Oreste Marini decretate eccezionali da Roberto Longhi: “Lo storico bresciano Federico Odorici in “Storia bresciana” rievoca, con figure di mendicanti un’amara vicenda: ‘mentre il patriziato si divertiva le patrie valli pativano la fame. Il caro del 1763 aveva esausto fra que’ monti ogni mezzo a campare la vita; non casale non borgata in cui pullulassero mendici, ed erranti famigliole n’andavano di porta in porta limosinando per amor di Dio’…(…) Poscia più che l’umano rispetto potè il digiuno; ed al 1° di marzo del 1964 cinquecento Valsabbini armatisi dei loro moschetti, calarono dai monti e giù fino a Desenzano…gittandosi a furore nei magazzini, quanto rinvennero altrettanto portarono….l’esito fu stimolo ad altra valle d’imitarne l’esempio e una forte accozzaglia di triumplini, brandite le armi, scese anch’essa più procellosa della prima gridando: ‘vogliamo del grano’…il povero capitano metteva in pegno la sua parola e molto grano il giorno appresso fu mandato in valle, ma un’altra ne mantenne che a sé medesimo aveva fatta, perchè avuto il nome dei capi di quel subbuglio dopo breve processo facevagli strozzare in carcere, poi comandava le misere salme si appendessero.” E, per finire, una riflessione-monito, sempre citata nello studio di Oreste Marini, di Giuseppe Zola (1739-1806, un prete bresciano attivissimo nelle lotte religiose di quegli anni): “La felicità del popolo non dipende dai flagelli, dalle discipline, dalle austerità…ma dalle arti, dall’agricoltura, dalle manifatture, dal commercio…dalle virtù sociali…” Ma tutte da leggere sono le citazioni in quello studio onde vedere “ciò che veramente è giovevole o veramente avverso all’umana felicità.” Un monito valido tutt’oggi. Ad esempio, per i “Bevitori” pittura dal “Pitocchetto” penso possa calzare a pennello (modo di dire in questo caso davvero appropriato) la citazione di alcuni versi del testo “La città vecchia” di Fabrizio De André, pure lui, mirabile rappresentante di un mondo “a parte nella sua forma caratteristica di canzone-poesia: “(…) Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino / quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino / li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno / a stratracannare a stramaledire le donne, il tempo ed il governo. / Loro cercan là, la felicità dentro a un bicchiere / per dimenticare d’esser stati presi per il sedere / ci sarà allegria anche in agonia col vino forte / porteran sul viso l’ombra di un sorriso tra le braccia della morte. / (…) Se tu penserai, se giudicherai / da buon borghese / li condannerai a cinquemila anni più le spese / ma se capirai, se li cercherai fino in fondo / se non sono gigli son pur sempre figli / vittime di questo mondo.” Appunto quello che di Giacomo Ceruti hanno capito, hanno cercato Roberto Longhi, Oreste Marini, Giovanni Testori, uniti dal medesimo interesse verso il pittore dei “preti”, dei “nobili” come dei “barboni”, verso il pittore che, in pieno Settecento, aveva capito, aveva cercato…Mostra a cura di Paolo Boifava e Stefano Lusardi. Ricerche per la storia del costume a cura di Beatrice e Mara Bertoli. Catalogo: Comune di Montichiari. Alcuni cenni sulla sede ospitante. 185 opere d’arte tra dipinti disegni e stampe alle quali si aggiungono un importante servizio da tavola composto da un centinaio di delicate porcellane e una biblioteca di circa 1500 volumi di argomento storico-artistico. Sono questi i numeri della cospicua donazione che il conte e notaio Luigi Lechi destinò al Comune di Montichiari nel Maggio 2005 “come gesto istintivo di amore verso l’arte e la cultura”. Luigi Lechi (1926-2010) nasce a Brescia, secondogenito di Fausto Lechi (1892-1979) il grande storico, promotore, negli anni Trenta del Novecento, delle prime mostre dedicate alla riscoperta della scuola pittorica bresciana, dal Quattrocento del Foppa all’Ottocento di Inganni passando per gli esempi del Romanino, del Moretto e del Savoldo. Dal 1961 iniziano così le ricerche di Luigi e gli acquisti antiquari che daranno forma ad una collezione che privilegia la scuola lombarda dal Cinque al Settecento con un particolare occhio di riguardo verso la “pittura della realtà” ricca di notazioni realistiche sulla quotidianità sociale di cui Giacomo Ceruti fu tra i maggiori interpreti oltreché ritrattista della famiglia Lechi nella prima metà del Settecento. La collezione Lechi conserva infatti ben 7 dipinti del grande pittore di “pitocchi”. tra i quali i ritratti di Angelo e Maria Gertrude Lechi. La scomparsa del conte nel Novembre 2010 e il conseguente trasferimento a Montichiari della collezione, ufficialmente dichiarata dallo Stato di “particolare interesse storico e artistico”, ha avviato il lavoro di costituzione di uno specifico museo, intitolato ai fratelli Luigi e Piero Lechi e destinato in futuro a conservare anche la collezione di quest’ultimo composta di altri 65 dipinti di alto livello artistico. Il Museo, ospitato nelle sale di Palazzo Tabarino (ex sede municipale), è costituito da oltre 1500 metri quadri di superficie espositiva disposta su due piani oltre a spazi specifici per laboratori didattici, biblioteca ed archivio.
Museo Lechi – Via Martiri della Libertà, 33; Ingresso speciale Euro 5; Fino al 20 Settembre 2015; orari: da mercoledì a sabato 10-13 e 14.30-18; domenica 15-19; Informazioni: Tel. 030 9650455; www.montichiarimusei.it
Fabio Giuliani
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