Anna Tifu a Manerba del Garda

| 1 settembre 2009
anna tifu

Anna Tifu
Non dimenticheremo facilmente i due bis, concessi dalla violinista Anna Tifu al termine della prima parte del concerto (Armonie sotto la Rocca, Manerba). Gli orchestrali (e noi con loro) parevano rapiti, malinconici, trenta gradi addosso ma pelle d’oca sotto la camicia. Risuonava immacolata, poeticamente polifonica, sfolgorante come un tesoro perduto improvvisamente ritrovato, la Sonata BWV 1001 per violino solo (Adagio) di Bach, il padre comune, l’amico che mai tradisce. Poi la Tifu ha squadernato una crestomazia di diavolerie, Finale della 2a Sonata di Ysaÿe, furiosa, visionaria, incontinente metamorfosi del Dies Irae. E lì, nel tumulto, tutti siamo tornati a respirare: pubblico, orchestrali, aurette e animali notturni. Angelo ingannevole con rimmel e rossetto, venefica strega bionda, Anna Tifu, ci aveva già conquistati con verdi occhiate, femminili curve, giovanile baldanza, generosità, piglio autoritario, intonazione infallibile, scale pulitissime, gementi corde doppie, armonici ghiacciati, schiumogeni colpi d’arco, “picchettati” e altro ancora, nel Concerto op. 47 di Sibelius. Il gigantesco catafalco eretto dal compositore finlandese è stato dominato dalla ventitreenne Tifu. La prepotente gestualità di natura romantica non ha potuto scacciare il tono epico, postremo, da sopravvissuto, che di continuo traspare dai pentagrammi di Sibelius. Dove conducono quelle note acute che s’inerpicano verso vette irraggiungibili? Perché il violino sfugge alle spire dell’orchestra, che gli si avvinghia come rampicante vorace? Salire per salvarsi? Metafora di una solitudine amara? La Tifu ha recitato le sue formule magiche con delizia e trasporto. Per certe ombre funeste non è ancora giunta l’ora. Magistrale anche il direttore Alpaslan Ertüngealp, nel reclamare evanescenti “pianissimo” dall’orchestra, affinché emergessero i funambolismi della solista, come i vapori salgono dalle paludi: metà serata l’ha trascorsa arrotolato come un serpente col dito indice verticalmente incollato al naso, l’altra metà ha sciabolato imperioso nell’aria. Le Danze di Galanta dell’ungherese Kodaly – scintillanti esuberanti spettacolari zingarate – sono state latte materno per l’ungherese Savaria Symphony Orchestra, che ha mostrato una disciplina ammirevole: unità nei fraseggi, ampiezza di respiri, cura della dinamica, arcate come fossero un solo esecutore. Una lezione di civiltà musicale. Ciliegina sulla torta, tre Danze Ungheresi di Brahms (e altre cinque come bis), con un rubato che ogni volta sembra eccessivo e invece non è mai abbastanza, con il miracolo di un colore che sembra tzigano e invece è viennese (o viceversa?), e il pubblico che non vuole andarsene, e una che signora sviene per il caldo, e la voglia di azzurro del vecchio olivo scheggiato chiamato Brahms che sempre ci meraviglia.

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