AMADINDA PERCUSSION GROUP

| 1 febbraio 2002

Il mondo delle percussioni è eccitante, dotato di potenzialità sonore immense, per certi versi è un territorio ancora vergine. Il compositore americano John Cage scriveva, al riguardo, parole illuminanti, sintetiche e definitive: “La percussione è tutta aperture. Non ha niente a che fare con gli archi, coi legni, con gli ottoni. E’ in un modo percussivo che si sentono, l’uno dopo l’altro, i suoni reali. Con le percussioni entrate nel mondo delle “x”, ovvero delle incognite, nel caos, in una nuova scienza. Archi, legni e ottoni la sanno troppo lunga sulla musica, mentre sanno troppo poco del suono. Per studiare il rumore bisogna andare a scuola dalla percussione. Lì si scopre cos’è il silenzio: un mezzo per mutare il pensiero. Lì si scoprono nuove forme del tempo, mai praticate”. Lo spirito percussivo apre ogni cosa, anche quello che prima era, come si dice, ermeticamente chiuso”. Una lunghissima citazione, ma necessaria per incontrare il gruppo ungherese di percussionisti “Amadinda”, formazione di eccezionali musicisti (l’Ungheria è sempre una formidabile scuola d’artisti!), attivi in tutto il mondo, che proprio di Cage sta incidendo l’opera omnia per percussioni (per l’etichetta Hungaroton, distribuita in Italia da Jupiter). Dipende. Giornale del Garda li ha contattati personalmente, in attesa della loro imminente tournèe italiana, ma la conversazione è stata troppo lunga per poterne riferire in questa sede. Hanno preferito rimandarci alle loro incisioni, più eloquenti d’ogni parola scritta. I loro cd sono difficili ed affascinanti al tempo stesso. Si tratta davvero di sentieri nuovi, quelli che siamo costretti a percorrere, se desideriamo trovare una risposta alle nostre domande. Nelle pagine suonate dal gruppo “Amadinda” troviamo di tutto: Blues e Fox Trot americani d’inizio secolo, composizioni di musicisti ungheresi contemporanei, pezzi storici del minimalismo d’oltreoceano (Reich), pagine tradizionali polinesiane, asiatiche, africane. Amadinda suona di tutto, come sempre accade nei gruppi di percussioni: metallofoni, fruste, legnetti, tamburi d’ogni forma e materiale, vibrafoni, decine di xilofoni, fischietti, sirene, centinaia di idiofoni, lastre di metallo, campane, percussioni con corde, castagnette, rombi… L’elenco è potenzialmente infinito; basti dire che Amadinda si costruisce anche quello che gli occorre, quando non lo ha subito disponibile. (In una foto, vedi i baffuti musicisti sorridenti e neri di fumo, mentre svuotano un tronco d’albero e lo scavano ulteriormente con fuoco e arnesi vari). Il loro cinque (per ora) compact disc dedicati a Cage sono semplicemente splendidi. Alcune citazioni, alla rinfusa: in Four4 i nostri s’immergono in 72 minuti di eventi sonori lentissimi ed imprevedibili, manciate di polline gettato nell’aria. Third construction di John Cage è un capolavoro di strutture e geometrie sonore, con ruggiti di leone, richiami di grilli, lattine, conchiglie, strumenti più consueti e colori sgargianti che accecano. Amadinda s’avvale anche della collaborazione di grandi pianisti (al pianoforte preparato, naturalmente), Zoltàn Kocsis, fra gli altri. E’ musica che si muove all’insegna della contaminazione, in barba ad ogni divisione tra generi musicali. Musica inclassificabile, lontana da ogni rassicurante casella, alla larga da ogni parco-giochi con cartello segnaletico e albero genealogico tracciato da saccenti musicologi che indichi storia, appartenenza, categoria, numero di serie. Esiste solo musica bella o musica brutta, poco altro. Amadinda, spirito libero venuto dal vicino Est, ce lo insegna.

Di: Enrico Raggi

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