ROBERTO VECCHIONI, DALL’AFRICA A BRESCIA E VERONA

| 1 marzo 2004

Il professore ha scoperto l’Africa. Ed ora porta in tour le sue impressioni di viaggio, con uno spettacolo che il 9 marzo debutta a Vercelli e che starà in tour fino a fine maggio. 

Date previste a Brescia (13 marzo), Bassano del Grappa (19) e Verona (3 maggio). E’ questo l’ultimo e naturale approdo di un percorso che Roberto Vecchioni ha intrapreso per uscire da un oscuro periodo di depressione. Dopo il successo del precedente album “Il lanciatore di coltelli”, dopo l’impegno nel movimento dei girotondi, improvviso, un momento difficile, per il quale l’Africa ha rappresentato la provvidenziale via d’uscita. Ne è nato quello che Vecchioni chiama “un innamoramento imprevedibile”, sintetizzato con cura in un album da poco nei negozi ed intitolato “Rotary Club of Malindi”: “Questi innamoramenti imprevedibili possono capitare quando cominci a pensare che la vita non abbia più niente per stupirti – spiega lui-. Sono giorni passati a guardare il soffitto, senza rispondere al telefono, senza parlare e senza scrivere niente perché ti pesano gli amici ed anche i figli, e cominci anche a farti un po’ schifo. Quando sono partito per l’Africa io stavo attraversando un momento come questo, ed avevo bisogno di staccare, di provare a non pensarci più. E in Africa è successo il miracolo: tutto si è ribaltato, mi è venuto improvvisamente da ridere delle mie ansie occidentali, e ho ritrovato una gioia sottile grazie al mare, che laggiù è l’unica cosa che conta”.
L’approccio di Vecchioni non è stato certo quello del turista rimbambito: basti pensare ad esempio che parte dei diritti del brano che dà il titolo al disco saranno ceduti a Lila Cedius, un’organizzazione che ha come obiettivo la riduzione della trasmissione del virus Hiv da madri sieropositive ai neonati, giusto per ricordare la tragedia che l’Aids rappresenta in Africa. Un paese profondamente ferito, ma che secondo il cantautore milanese può ancora offrire la speranza ed una profondità a noi ormai sconosciute.
“In Africa sono riuscito a prendere le distanze dalle certezze, le grandezze e le miserie che ci assillano ogni giorno come silhouttes, come ombre cinesi. Da lì si guarda bene, si misura meglio. L’avventura di questo disco è partita dal nostro malessere, dal nostro male oscuro, per lasciarselo subito alle spalle come una sciocchezza di nessun conto. Ho capito che la verità è un’altra, e che per arrivarci bisogna capovolgersi e respirare i tramonti”.
Questa sorta di rinascita spirituale non ha impedito a Vecchioni di fissare lo sguardo sulle tragiche contraddizioni del nostro tempo. E sotto questo punto di vista fa sicuramente riflettere il ritratto di “Marika”, confessione di una terrorista di origini imprecisate che oppone la sua straziante voglia di vivere all’incoraggiamento di compagni che la spingono a farsi saltare in aria insieme ai “nemici”. “E’ una piccola tragedia in canzone, e non vuole avere nessuna valenza di torto o ragione politica. E’ semplicemente la narrazione di un fatto, la lettura di un animo combattuto e disperato, perché non sempre nel mondo ci si può sentire una cosa sola con la vita ed uscirne sereni. Ma se non altro, pensare e scrivere in Africa riesce a darti un senso di derisione e minimizzazione dei nostri pseudomiti così violenti, accompagnato da una rinnovata passione per sentimenti intramontabili ed universali”. L’album è stato prodotto ed arrangiato da Mauro Pagani, e suonato da una squadra di musicisti bresciani (Joe Damiani, Max Gabanizza, Giorgio Cordini) che ha saputo donare una coloritura etnica alle classiche composizioni del professore. Che, in questo album, ha anche scoperto la bellezza di non prendersi troppo sul serio. “Mi sono concesso il lusso di prendermi per il culo, specie in pezzi come “Tango di rango”, perché ho potuto considerare la fragilità dei miei traguardi passati, così spesso presi eccessivamente sul serio. Allo stesso modo, mi sono risultati ben poca e risibile cosa i nostri affarucci italioti, che ho cercato di smitizzare in “Faccetta rosa”. Pensare e scrivere in Africa mi ha dato questo: minimizzazione, senso di inappartenenza per i nostri pseudomiti, così violenti ed inutili, ma rinnovata, più acuta passione per sentimenti intramontabili e universali”.

Di: Claudio Andrizzi

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