Il tartufo: un tesoro nascosto
con particolari poteri quasi magici
Celato ai passanti, agli ignari, ai distratti. Come un santuario ipogeo. Come la Grotta della comunità ortodossa di Catania. Come il tempio della Notte nel parco milanese di Villa Ottolenghi-Battyani-Finzi. Come il Mitreo di san Clemente a Roma. Il tartufo è un tesoro nascosto, misterioso, a suo modo magico. Sant’Ambrogio ringraziò san Felice, primo vescovo di Como, per l’omaggio dei suoi tartufi d’una grandezza stupefacente. E’ il “figlio della terra” per Cicerone, “callosità della zolla e miracolo della natura” per Plinio il Vecchio. “Aglio del ricco” per gli antichi europei, “mistero poetico del mondo gastronomico” per Mantegazza e “diamante della cucina” per Brillat Savarin. Alessandro Dumas la butta in barocco con la definizione di “Sancta Santorum della tavola”. Lord Byron ornava la scrivania con un esemplare di pregio affinché il profumo ne destasse la creatività mentre Camillo Benso di Cavour utilizzava sovente il tartufo come mezzo di scambio nell’affondo diplomatico. Shakespeare ne “La tempesta” fa dire al buffone Trinculo: “Te ne prego lascia che ti conduca al pometo selvatico e colle mie lunghe unghia scaverò la terra per cavarne tartufi”. Per i greci è Hydnon, per i latini Tuber, per gli arabi Ramech Alchamech Tufus, per gli spagnoli Turma de tierra, per i francesi Truffe, per gli inglesi Truffle e per i tedeschi Truffel. Per Gioachino Rossini era un’autentica passione, caldeggiata dall’amico e fornitore Giovanni Vitali di Offida a cui confidava: “La tartufa ascolana mi ha ringalluzzito e rimbaldanzito”. Tra le righe della sua corrispondenza, i sentori pungenti di un amore sconfinato. “Ho pianto tre volte nella mia vita: quando mi fischiarono la prima opera, quando sentii suonare Paganini e quando mi cadde in acqua, durante una gita in barca, un tacchino farcito ai tartufi”. E lasciata nel cantone la partitura dello Stabat Mater, scriveva agli amici: “Sto cercando motivi musicali, ma non mi vengono in mente che pasticci, tartufi e cose simili”. Amalgamatore di note e d’ingredienti, con inedite variazioni sul tema e sull’impiego del “Mozart dei funghi”, così ce lo rappresenta Fulbert Dumonteuil: “Fu allora che comparve Rossini che, con la sua delicata mano grassottella, scelse una siringa d’argento! La riempì di puré di tartufi e, con pazienza, iniettò in ciascun rotolo di pasta questa salsa incomparabile. Poi, sistemata la pasta in una casseruola come un bambino nella culla, i maccheroni finirono la cottura tra vapori che stordivano. Rossini restò là, immobile, affascinato, sorvegliando il suo piatto favorito e ascoltando il mormorio dei cari maccheroni come se prestasse orecchio alle note armoniose della Divina Commedia”. Uno stravolgimento culturale se si pensa che nel Medioevo il tartufo nero era considerato nocivo, sterco del diavolo, escrescenza maligna del terreno, cibo da streghe, oggetto di malefizi. Nel Trecento si fece un gran parlare del duca di Clarence, figlio di Edoardo III Plantageneto, che ad Alba s’abbandonò a libagioni così sontuose e tartufate da morirci: “Grande copia di trifole havendo manducato per modo di pane, volse con vini diversi donare refrigerio alle interiora, hautene un forte calore que lo addusse a trapasso”. Dopo lo sfarzo delle corti e delle tavole rinascimentali, toccò al Seicento francese di Jean-Baptiste Poquelin, ai più noto con lo pseudonimo di Molière, sancire l’ingresso sul palcoscenico del prezioso fungo. Dal teatro alla strada il “Tartufe” fu sinonimo d’ipocrisia e d’impostura, stigmatizzando il suo aspetto grezzo e terroso nel contraltare di un sofisticato profumo. La convinzione luciferina di Brillant Savarin che “i tartufi rendono le donne più tenere e gli uomini più intraprendenti” non è da considerarsi del tutto pellegrina. Ben lo sapevano i romani che conoscevano i tartufi di Libia e ne erano sommamente ghiotti. Se Avicenna sosteneva “che generano umori atrabiliari e grassi, e son causa di apoplessia e di paralisi”, il Platina è di ben altra opinione: “E’ questo un cibo molto nutriente come crede anche Galeno, ed è un eccitante della lussuria. Perciò vien servito spesso nei pruriginosi banchetti di uomini ricchi e raffinatissimi che desiderano essere molto preparati ai piaceri di Venere”. Infatti tra le componenti del tartufo figurano, in bassa concentrazione, sostanze simili al testosterone, associate a composti d’aroma muschiato. Nel suo olezzo si spiega buona parte della chimica sottostante all’accoppiamento fra i maiali. Che non è poi così distante dall’azione dei feromoni, sostanze steroidee odorose della secrezione ascellare maschile, nel concupire le femmine al fine di riprodurre al meglio la specie umana. Igor Stravinsky individuava un parallelismo fra l’utilizzo selettivo dell’olfatto e la creatività artistica: “Abbiamo un naso. Il naso sente l’odore e sceglie. Un artista è semplicemente una specie di maiale che cerca tartufi”. Doveva pensarla così anche l’albergatore e ristoratore Giacomo Morra quando nel 1929 mise in campo il primo tentativo di pubblicizzare il tartufo nella già consacrata Fiera d’Alba e nelle feste vendemmiali delle Langhe, intuendo l’opportunità di sublimare il Tuber in un oggetto di culto internazionale. Nel 1949 donò il miglior esemplare dell’annata alla celebre attrice Rita Hayworth. Dopo di lei, altri beneficiarono dell’ambito riconoscimento, tra cui Harry Truman nel 1951, Winston Churchill nel 1953, Joe Di Maggio e Marylin Monroe nel 1954, l’imperatore d’Etiopia Hail è Selassiè nel 1955, Eisenhower e Nikita Krusciov nel 1959, Paolo VI nel 1965. Chissà se Papa Montini conosceva anche i tartufi della sua provincia bresciana?!
Raccolta sul Garda
Nelle Valli la raccolta era praticata fin dal Quattrocento, mentre sul Garda il fenomeno prendeva piede nel tardo Ottocento. La produzione spontanea andava di pari passo con il rigoglio vegetativo delle colline ombrose di carpini neri, di roverelle, di noccioli, di lecci, di tigli, di pioppi, salici e faggi. L’uso e l’abuso della risorsa naturale nell’incedere dei lustri ha giocato a rovesciare il credo di Plinio il Vecchio: “Il tartufo sta tra quelle cose che nascono ma non si possono seminare”. Gli impianti di Toscolano Maderno, di Tignale e di Tremosine, di Roe’ Volciano e di Pertica Alta hanno infatti diffuso con successo la tartuficoltura sul Garda e in Valle Sabbia. Dal 1996 è inoltre attiva l’Associazione Tartufai bresciani – come da attuale denominazione – che conta oltre 400 iscritti ed è presieduta da Virgilio Vezzola, studioso, ricercatore e autore di autorevoli volumi. Una passione che non è solo lavoro ma anche tutela del patrimonio biologico della plaga lacustre. Si pensi al recente salvataggio del “tartufo nero pregiato di Salò”, annidatosi tra le roverelle di Renzano e di San Bartolomeo e scomparso per cause accidentali. La cura e la selezione del ceppo per la micorrizazione di altre piante hanno salvato la specie autoctona dall’estinzione. Una lezione di tutela e di dedizione che andrebbe estesa ad ogni lembo e ambito di quel fragile e meraviglioso ecosistema che è la regione gardesana.
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