Il Raccontino UN COLPO LONTANO

| 29 luglio 2004


L’elefante caricò con tutta la forza del suo enorme peso, partì barrendo attraverso la savana, con la proboscide alzata e le grandi orecchie al vento.
Ecco John scivolato un attimo prima a terra, impossibilitato a sparare, ecco Martin che freneticamente tenta di ricaricare il fucile, ecco Lisa che non sa trattenersi dall’urlare di paura, ecco Mitchel che spara uno, due colpi, e che corre impulsivamente a rialzare John, e a trascinarlo via.
Nitidi quegli attimi, pur tra un turbine di ricordi più recenti, nitide quelle giornate di caccia lontane, il terrore di quegli attimi, gli atti inconsulti e strani; l’elefante (doveva essere giovane) restò fermo per un attimo, dopo il secondo colpo, e poi inspiegabilmente via per la savana, il barrito spezzato, la corsa affannata, arrestata nella sua veemenza. Poi i ricordi sono più sbiaditi, la ricerca inutile, la partenza, e tanti, tanti altri ricordi lontani e vicini, di altre cacce, in Africa e altrove, ancora insieme, o divisi, e poi gli anni, uno dopo l’altro, e il progressivo distacco, sempre più lontani nello spazio e nei ricordi…

Lunga è la vita degli elefanti nelle savane e nelle boscaglie africane, tante stagioni si susseguono nella loro vita, e tante volte tornano i loro dorsi a risciacquarsi delle piogge scroscianti e tante volte le grandi teste dondolando cercano ristoro dal sole all’ombra degli immensi baobab; nella stagione calda grandi insetti volano ronzando a sciami sopra gli stagni, e nell’ombra riposano le gazzelle.
Un branco di elefanti percorre lentamente la savana, lentamente, i maschi, le femmine e i piccoli, e c’è assieme a loro un grande elefante, che non è però particolarmente grande o particolarmente possente, no, è solo molto esperto: molti e molti ani fa conobbe i cacciatori bianche, li caricò e fu ferito profondamente, ance se non mortalmente, e da allora guida il branco lontano da loro perché conosce lo smarrimento per il colpo dei fucili ed il silenzioso sibilo di morte nelle ossa e nelle membra.
E le cose che a noi, imperfetti animali, paiono finire, in realtà non terminano i loro effetti quando scompaiono alla nostra stupefatta vista, ma proseguono la loro traccia, la loro scia in silenziose strade, spinte da forze sconosciute e nascoste, ma forti ed attuali.
Così quel colpo, partito in anni lontani, da una forza ormai antica, non finì la sua corsa, e se il giovane elefante, pur fuggendo gemente, non perdette la vita, pure la forza di quel colpo non era cessata.
Girano le stagioni intorno al mondo e nell’Africa verde e nera, gialla e rossa, turbinando girano le piogge e le siccità, turbinando nel sole e negli scrosci mutano le foglie dei grandi alberi e le altissime erbe delle praterie, e turbinando volano i fiumi a valle tuffando lontano la grande testa nel mare; vola turbinando nella sua aspra vita il sangue dell’elefante, pulsando e battendo, schiumando nelle vene e nelle arterie rosse, e il grande cuore batte, batte, al ritmo della corsa nella savana, al ritmo del respiro, al battere possente delle zampe sul suolo risonante; e il proiettile prosegue la sua corsa, verso la sua palpitante meta.

Il fucile che lo sparò, e che più non spara da anni, è appeso su un camino, in una casa del Sussex, ricordo di cacce lontane, tra antichi trofei; e Mitchel, con la pipa profumata in mano, siede accanto al fuoco e, senza pensare, assapora la calma quiete della sua casa. Elisa, a Londra, nel suo appartamento di Kensington, serve il tè alla nuora e ai nipoti; scende la nebbia, la prima dell’ottobre, già si sono accessi i fanali gialli, nel parco lì accanto. Martin giace in un cimitero di Edimburgo, e una foto di ceramica ovale ricorda a parenti ed amici le sue sbiadite sembianze. John, il colonnello della guardia, passa in rivista le sue truppe nel cortile nebbioso del castello di Windsor.
Laggiù, nell’Africa lontana, nel suo ribollente cuore, nulla è cambiato, e lo splendore dei cieli e delle terre di quei luoghi persistono senza minacce a rifulgere per il cielo, per l’acqua e per la terra, così come in Inghilterra è la nebbia di sempre, ormai cara e familiare per chi vi nacque, e il verde spento dei giardini e la pioggia frusciante delle foglie.
Oggi sono, in Inghilterra, le diciotto e quarantacinque di un giorno come tanti altri, ma improvvisamente , chissà come, Mitchel ha alzato lo sguardo al fucile, appeso tra i trofei, lì, sopra al camino, e non sa perché (gli è sembrato quasi di sentire scattare il grilletto, ma come un rumore lontano, lontano, lontano). Elisa – ahi! – ha detto – ahi!, scottandosi appena con il tè, ma gli è sembrato come un grido più forte e più intenso, non tarpato dalla nebbia, ma squillante nel sole equatoriale. E un raggio di umilissimo, pallido sole, ha danzato, d’argento sulla ceramica ovale con la immagine di Martin, per un attimo solo. Questi effetti fanno le luci e le ombre nei cimiteri di Scozia. E il colonnello della guardia, per una frazione di secondo, ha avuto, là nel castello di Windsor, come un capogiro, leggero leggero, ma gli è parso di perdere l’equilibrio e di cadere.

Improvvisamente, in una corrispondente splendente ora di sole della savana, un elefante, il capo di un branco, così, senza apparente ragione, si è piegato sulle possenti ginocchia ed ha emesso un barrito spezzato, quasi un rantolo profondo, quasi un eco di voci lontane.
Ribollendo, il sangue scarlatto schiuma nelle vene e nelle arterie, e il grande cuore si dibatte colpito a morte, ora davvero, e poi si acquieta, in una pace immensa, fermi per sempre, il sangue, il piombo di quel colpo lontano, le grandi zanne, le zampe, i barriti spezzati, sotto il sole luminoso dell’Africa.





 

Di: Vanni Mariotti

Commenti

Salvato in: CULTURA, Libri
×