Dipende – Giornale del Garda incontra Lucrezia Calabrò Visconti

| 10 aprile 2023
mostra Lozano a Torino Ph. Federico Masini per Evergreen Design House

Dipende intervista la gardesana Lucrezia Calabrò Visconti, capo curatrice della Pinacoteca Agnelli  dopo le esperienze a Venezia, Torino, Roma, Amsterdam, New York.

partendo dal Lago di Garda

Ritieni l’incarico di capo curatrice in Pinacotca Agnelli un punto di arrivo, di partenza o un’esperienza?
L’incarico in Pinacoteca Agnelli è sicuramente una tappa importante nel percorso istituzionale che ho fatto fino ad ora: è la posizione museale con il più alto grado di responsabilità che ho ricoperto ad oggi. Questo non solo per il mio ruolo, che come capo curatrice comprende essere alla guida del Dipartimento Curatoriale, che al momento conta altre quattro persone, ma anche per la responsabilità che comporta a livello culturale: quando sono arrivata nell’istituzione un anno e mezzo fa, invitata da Sarah Cosulich che era appena stata nominata la nuova direttrice, l’obiettivo non era solo pensare e curare, insieme a lei, la programmazione del museo, ma anche iniziare un percorso di riflessione e rinnovamento dell’isituzione stessa, aggiornando i suoi obiettivi e le sue modalità. Abbiamo costruito una nuova missione per il museo, misurandoci con la complessa storia dello spazio che lo ospita – la ex fabbrica FIAT del Lingotto -, e sfidando la visione canonica della storia dell’arte rappresentata dalla sua collezione permanente. Ciò che tentiamo di fare con le progettualità di Pinacoteca è riattivare il museo, immaginandolo come un motore che può innescare nuove riflessioni sul passato attraverso le urgenze della contemporaneità, abbracciando il ruolo civico e sociale a cui può ambire.

Lucrezia Calabrò Visconti e Sara Cosulich

Nel tuo percorso formativo quando hai capito qual era la direzione da seguire?
Penso sia sempre più difficile identificare una traiettoria specifica da seguire rispetto alle professioni che ci troviamo a fare – mi riferisco all’ambito culturale, che è quello in cui opero, ma credo che sia vero anche per molti altri lavori. Ad esempio, l’equivalenza tra un alto grado di formazione e un percorso professionale di alto profilo nell’ambito in cui si ha studiato non è affatto scontata, né lo è che a una carriera gratificante corrisponda un compenso adeguato. Il nostro ambito, quello dell’arte contemporanea, è inoltre un campo in continua evoluzione, quindi riuscire a trovare la propria strada è spesso particolarmente complesso. Io penso di essere stata molto fortunata ad avere avuto accesso, a partire dallo IUAV in poi, a un confronto più o meno diretto con figure e realtà che lavorano nell’ambito dell’arte contemporanea internazionale, che mi hanno permesso di identificare abbastanza presto quali fossero i tipi di figure professionali che esistono, le tipologie di istituzioni con cui avrei voluto confrontarmi, quali sono i luoghi dove si costruisce il discorso culturale contemporaneo da conoscere e a cui guardare. Sicuramente questo mi ha dato degli strumenti per prendere delle decisioni più informate e per direzionarmi verso le progettualità che mi interessavano di più, anche se devo ammettere che alcune delle esperienze più importanti della mia vita le ho incontrate con una semplice ricerca online.
Quali sono gli incontri fondamentali del tuo percorso?
Essendo cresciuta in un luogo in cui, come spesso accade in contesti di provincia, c’è una grande mancanza di esposizione – nonché una certa diffidenza – verso la cultura contemporanea, ogni incontro che ho fatto nel corso della mia formazione con persone che mi hanno spronata a pensare criticamente e a guardare oltre a ciò che avevo di fronte è stato fondamentale. Ad esempio incontrare al liceo una professoressa di storia dell’arte che ci spingeva a viaggiare per esplorare il contemporaneo è stato di un’importanza incalcolabile. Altrettanto importante è stato avere come punto di riferimento, nella vita come nel lavoro, donne estremamente indipendenti, e che hanno lavorato instancabilmente per mantenere quella indipendenza. Le loro esperienze sono state esempi fondamentali per immaginare il mio percorso, per sentirmi legittimata ad ampliare il mio sguardo verso orizzonti che non sarebbe stato strutturalmente possibile incrociare altrimenti, e che spesso restano possibilità inesplorate per persone che non hanno avuto accesso alle stesse storie.
Quali i momenti importanti?
Il momento più importante è ogni volta che realizzo un progetto e scopro che ha trasmesso qualcosa alle persone che l’hanno visitato, al team che ha lavorato con me, alle artiste o artisti coinvolti. Non è solo una questione di gratificazione personale, ma di costruire una comunità attorno a una progettualità comune, lavorando insieme per abitare per un periodo più o meno lungo nuove forme di pensiero e di vita. Fare una mostra vuol dire anche contribuire a un discorso più ampio in cui riconoscerci, metterci alla prova e a volte imparare a trasformarci un po’, anche solo di una virgola. Ricordo molto bene la prima volta che un’amica è uscita commossa da un progetto che avevo curato. Trovarci inaspettatamente a piangere insieme perché ci siano riconosciute in una storia che ha parlato ad entrambe è stato uno dei momenti che conservo con più affetto e riconoscenza.
Quali cambieresti?
Cambierei l’aver accettato, molto spesso, di lavorare in condizioni che non erano adeguate al lavoro che stavo svolgendo. Il settore della cultura in Italia, ma anche spesso all’estero, è segnato da una forte deregolamentazione, dalla totale mancanza di tutele, dallo sfruttamento selvaggio di chi lavora al suo interno. Con AWI – Art Workers Italia abbiamo realizzato la prima indagine di settore sul lavoro nell’arte contemporanea in Italia, per scoprire che il grado di formazione delle persone che lavorano al suo interno è quasi sempre altissimo, costruito magari all’estero, per poi tornare in Italia a condurre una professione che viene corrisposta con compensi imbarazzanti, o addirittura con forme di riconoscimento “alternative” al denaro – come la promessa di visibilità. Quasi la metà delle persone che lavorano nel nostro settore ha un reddito annuo al limite con la soglia di povertà, e le forme di contrattualizzazione con cui lavoriamo – quando un contratto c’è, perché non è affatto ovvio – sono atipiche e discontinue, il che significa che non garantiscono le tutele di base a cui una persona che lavora dovrebbe poter ambire, fomentando uno stato di totale precarietà. Se tornassi indietro rifiuterei sicuramente alcuni degli incarichi che ho ricoperto, evitando di farmi sfruttare e di diventare complice e connivente di sistemi che sfruttano.
Quali sono i prossimi obiettivi?
A settembre Strike, la mostra dedicata a Lee Lozano che ho recentemente co-curato in Pinacoteca (che ha inaugurato qualche settimana fa ed è visitabile fino a fine luglio), viaggerà alla Bourse, la sede della Fondazione Pinault a Parigi. Al momento stiamo lavorando alla trasformazione dell’allestimento, pensato per gli spazi a Torino, per adattarlo alla monumentale architettura del museo, disegnato da Tadao Ando. Portare la mostra a Parigi sarà davvero una bella sfida, ed è una grande soddisfazione che un’istituzione così importante ci abbia proposto di portare il progetto da loro. Nel frattempo curerò una mostra per VIN VIN nel contesto di “curatedby” a Vienna, oltre a continuare ovviamente a lavorare alla programmazione di Pinacoteca.
E i sogni nel cassetto?
I miei sogni nel cassetto sono diversi, ma accomunati da una caratteristica: il grandissimo lusso di potersi dedicare a loro con più calma. Vorrei concentrarmi su meno progetti ma più a lungo termine, e poterci lavorare con la cura che permette di avere un reale impatto su un una comunità di persone, su un territorio, sulla sua società. Il dove è meno importante del come, anche se devo ammettere che mi dispiacerebbe molto dover lasciare di nuovo l’Italia, che nonostante tutte le sue storture – o forse proprio perché le vedo e vorrei contribuire a raddrizzare – è il luogo in cui vorrei vivere.

RV

 

Lucrezia Calabrò Visconti (Desenzano del Garda, 1990) ha un percorso professionale intenso e di altissimo livello. Dopo il Liceo Classico Bagatta di Desenzano si è laureata in Arti Visive e dello Spettacolo allo IUAV di Venezia, per poi specializzarsi in studi e pratiche curatoriali alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, e svolgere uno stage curatoriale ad Artists Space a New York. Viene selezionata per il programma per curatrici e curatori al De Appel di Amsterdam, e nel frattempo fonda a Torino lo spazio indipendente CLOG Projects e il collettivo The School of the End of Time con Ambra Pittoni e Paul-Flavien Enriquez-Serrano. Negli anni seguenti cura mostre e progetti in diverse istituzioni italiane e internazionali, tra cui la GAMeC di Bergamo, la Fondazione Baruchello a Roma, l’Università UvA e lo Stedelijk museum di Amsterdam, Artissima e Almanac Inn a Torino. Viene selezionata per curare la International Biennale for Young Art di Mosca nel 2018, mentre è curatrice e tutor del programma di ricerca curatoriale per curatrici e curatori internazionali YCRP della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino dal 2018 al 2021. Le sue collaborazioni con curatrici e curatori come Francesco Bonami, Myriam Ben Salah, Maurizio Cattelan e Marta Papini la portano a lavorare a progetti per il Palais de Tokyo, Parigi, lo TSUM musem, Shanghai, il Castello di Rivoli, Torino, Daelim Museum a Seoul. Parallelamente porta avanti una pratica di scrittura critica, si specializza in Teoria Critica della Società all’università di Milano Bicocca e co-fonda AWI – Art Workers Italia, la prima organizzazione dedicata a tutelare e dare voce a chi lavora nell’arte contemporaea in Italia, di cui è Vice-Presidente. Ora capo curatrice della Pinacoteca Agnelli a Torino sotto la nuova direzione di Sarah Cosulich, curerà presto una mostra alla Bourse – Fondazione Pinault di Parigi.

mostre alla Pinacoteca Agnelli: curatela di Sara Cosulich e Lucrezia Calabrò Visconti

 

 

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