Desenzano del Garda (BS): La bicicletta di Baccolo

| 4 marzo 2008
1934- porto vecchio

Chi abitava in Capolaterra ed era giovane durante l’ultima guerra può ricordare il signor Italo Baccolo, che su una bicicletta, con una cassettina di legno per portapacchi anteriore, di mattina presto, si immetteva per la strada verso Brescia.

Qualsiasi fosse il tempo o il rischio bombardamenti, egli, alternandosi nei giorni della settimana con il collega Guido Chimini, pedalava con energia sulla strada bianca e raggiungeva l’ospedale del capoluogo portando le provette di sangue da analizzare, le richieste di medicinali, gli incartamenti da consegnare agli uffici competenti. In genere impiegava per il viaggio e la risoluzione delle consegne due ore e mezza. Altrimenti in bici, di concerto con l’amico Chimini, andavano a reperire medicinali nelle farmacie disponibili sull’entroterra gardesano. Al rientro Italo Giovanni Baccolo raggiungeva l’Ospedale di Desenzano, allora in via Gramsci. Qui si rendeva conto delle urgenze e, secondo le necessità, si apprestava ai doveri di ufficio o di infermiere in camice bianco. Infatti, segretario dell’Opera Pia dal 1920, con l’obiettivo di tenere sempre in pareggio il bilancio, secondo i valori economici e morali dell’800, data la scarsa disponibilità del personale, sapeva anche mettersi a fianco delle suore a servizio degli ammalati e dei pochi medici. Non vi erano orari ben definiti di servizio e tutti nel nosocomio si davano da fare fino ad esaurimento delle bisogna di diversa natura. A volte il signor Italo tornava a casa in via Castello dalla moglie e dai tre figli oltre le 22. Nessuno brontolava, tanto meno l’interessato, che viveva il lavoro con passione e non come dovere da compiere. Per quarantacinque anni svolse il suo ruolo con serietà e mai i suoi lo sentirono lamentarsi di qualcosa circa la professione, che pareva addosso a lui la prima pelle della sua personalità. Severo, quando c’era bisogno, cercava di fare interventi giusti presso colleghi e sottoposti, operando con energia
Era senz’altro uomo di coraggio, che non gli mancava dalla giovinezza. Nato a Desenzano nell’agosto del 1897, figlio di Doro Baldo, originario di Portese, era stato arruolato in marina insieme al fratello proprio alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale. Ben presto da volontario era entrato nel gruppo dei piloti di idrovolanti di sede al Lago di Bolsena. Era poi passato a Sesto Calende presso il lago Maggiore. Non era un compito di tutto riposo su quegli aerei leggerissimi, rischiosi anche nelle spedizioni meno impegnative come lo scortare corazzate in mare; su una delle quali, venne poi a sapere, era imbarcato il fratello. Prese la malaria e se non fosse stato per l’aiuto del compaesano Rosina di via Santa Maria, incontrato per caso, che lo portò nella sua tenda e gli somministrò il chinino, la sua sorte era segnata. Invece guarì e partecipò, impresa più rischiosa e senza spazi per il riposo, all’offensiva italiana dopo Caporetto. Doveva col suo fragile idrovolante gettare bombe sugli Austriaci in fase di avanzamento e difendersi dagli attacchi in volo con una mitraglietta di prima fabbricazione. Per due volte cadde con l’idrovolante e per due volte se la cavò. Provava una pena immensa per i soldati al fronte, che vedeva come forza d’attacco agli ordini di ufficiali tanto meno preoccupati della loro sorte quanto erano più dotati di fregi sul loro cappello.
Ritornato dalla prima guerra mondiale, aveva prestato servizio per breve tempo presso la falegnameria Feltrinelli di Desenzano, poi era entrato all’Opera Pia del paese, allora centro gardesano molto piccolo rispetto ad oggi, tanto che ogni abitante conosceva più o meno bene tutti i compaesani. Durante i quarantacinque anni di lavoro ebbe a conoscere tutte le persone che contribuirono allo sviluppo del luogo di cura, facendolo diventare da semplice infermeria a ospedale di grande importanza sul territorio del Lago di Garda. Conobbe e fu amico di Ettore Andreis. Gli fu tanto vicino che un giorno l’anziano generoso signore, senza prole, gli propose di affidargli un figlio, lo avrebbe fatto erede di ogni suo bene. Italo Baccolo lo aveva guardato con sorpresa e con così doloroso diniego che Ettore Andreis, poi morto nel giugno del 1928, lo aveva abbracciato e lo aveva tranquillizzato: avrebbe lasciato i suoi possedimenti per la realizzazione del suo progetto di vecchia data, dotare il paese di un grande ospedale. Il sig. Baccolo conobbe poi tutti medici del tempo come il dott.Giustacchini, padre del dentista, il dott. Barberini, il dott. Achille Baronio a cui fu accanto dai primi anni di giovane medico fino alla morte, il dott. De Gasperini, il dott. Massimo Bernasconi, grande propulsore della modernizzazione dell’ospedale. Ma era anche grande estimatore delle suore, quattro o cinque monachine in abito bianco che non avevano orario fisso per il loro lavoro e si impegnavano senza riserve. Sapeva apprezzare l’attività delle prime infermiere come Gennarina, dei portantini e degli infermieri come Giuseppe. La comunità del personale dell’ospedale era per lui come la sua famiglia e ne difendeva l’operato e le iniziative con forza. Quando una sera dell’immediato dopoguerra, finito il rosario, davanti all’ingresso del Duomo un pseudopartigiano gli si avvicinò e gli gridò: “Una sera verremo a casa sua e gliela faremo pagare”, Italo Baccolo aveva scostato il figlio più piccolo, Mario, e afferrato per il ‘croatino’ il minacciante, gli aveva detto: “Io sono qui! Dimmelo adesso quello che devi dirmi.” In famiglia erano convinti che una qualche decisione circa l’ospedale avesse dato fastidio. Negli ultimi anni di servizio prendeva 58.000 lire al mese di stipendio; suo figlio, operaio all’OM a Brescia al primo impiego, riceveva più di lui. Andò in pensione nel 1963 con l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro, ma senza liquidazione. Poi nel 1971, anno della sua morte, ricevette l’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto, ma non godette la piccola annessa pensione. Non aveva fatto però mai conto delle ricompense e i suoi figli durante gli anni grami avevano mangiato poco, come tutti i ragazzi di Capolaterra. Lui non aveva fatto e fece mai ferie o vacanze. Allora usava così presso i più.

Di: Amelia Dusi

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