Venezia NUBI E VENTI SUL FESTIVAL
Anche quest’anno Venezia ce l’ha fatta. Il Festival del cinema è arrivato in porto, pur tra mille difficoltà di navigazione. Ad aver vinto la scommessa è stato il capitano di lungo corso Moritz De Hadeln, già direttore delle prestigiose rassegne di Locarno e Berlino.
Unanimi sono stati i riconoscimenti per aver costruito una mostra piacevole in soli quattro mesi con opere di discreto livello e con un’organizzazione un po’ più razionale (siamo ancora in Italia, non si può pretendere troppo). Il successo di De Hadeln è, però, segnato da una grave macchia. Non certo quella, che i più gli addebitano, di aver partorito il premio al film Magdalen di Peter Mullan. Piuttosto, quella di aver detto un’immensa sciocchezza in occasione della proiezione di 11.9.01, film corale sulla distruzione del World Trade Center. La frase (in fondo i Talebani sono stati creati dagli americani) poteva risparmiarsela, così come quella difesa ad oltranza di registi antiamericani per principio che discettano solo sulle colpe degli Stati Uniti e dimenticano i torti degli altri. Ma tant’è…
Ritorniamo, invece, al concorso e soprattutto ai vincitori. Come già detto il Leone d’Oro è andato a Magdalen, dello scozzese Peter Mullan, che ha orgogliosamente ritirato il premio in rigoroso kilt viola, mandando a quel paese superstizioni dello spettacolo e ribadendo le sue origini. Mullan, anche affermato attore, aveva esordito tre anni fa con Orphans, un vivido ritratto surreale del proletariato scozzese. Ora si è spostato in Irlanda per denunciare soprusi e infamie compiute da un ordine religioso femminile nei confronti delle ragazze irlandesi “perdute”, consegnate a queste aguzzine dalle stesse famiglie. Il film, e il conseguente premio, hanno scatenato un vero putiferio. La chiesa cattolica ha preso ferocemente posizione contro la pellicola, in testa il Cardinal Tonini, difensore di diritti in televisione, ma un poco dimentico della scomparsa della censura in Italia. Vestali impazzite si sono strappate le vesti a difesa della nostra tradizione cattolica scordandosi alcune cose. In primo luogo è un film e va preso per tale, con i limiti e i pregi dell’opera in questione. In secondo luogo i fatti narrati sono veri, forse con una forzatura eccessiva in senso negativo delle suore, ma veri. Infine, Peter Mullan è un regista di chiara fede trotzkista e la sua visione della religione non può certo essere nuova a chi mastica di cinema e arte. Per me è più “scandaloso” (mi si consenta il termine che l’attore non merita) il premio a Stefano Accorsi. Il ragazzo è bravo, anzi bravissimo in Un viaggio chiamato amore, rispetto ai premiati dello scorso anno (Ceccarelli e Lo Cascio per il tedioso Luce dei miei occhi), ma io continuo a pensare che a Tom Hanks, protagonista di Road to Perdition il riconoscimento era dovuto. L’impressione è che la giuria non abbia amato molto i film americani presenti, tanto è vero che l’unico premio è stato ad appannaggio dell’acclamatissima Julianne Moore, protagonista del solido Far from Heaven, di Todd Haynes. Peccato, perché la truppa statunitense del Lido era folta e di alta qualità. Invece, si è preferito adottare il criterio della distribuzione dei premi, sparsi per il mondo. Notate bene: il miglior film è europeo, miglior attore un italiano, miglior attrice una statunitense, regia ad un coreano, Gran Premio ad un film russo. Poi altri tre premi minori all’Asia e uno ancora all’Italia, Due Amici di Scimone e Sframeli miglior opera prima con un film canadese. Come vedete un verdetto geograficamente salomonico che non ha convinto appieno, anche se il film vincitore possiede qualità artistiche di indubbio livello. Ma su questo premio si sono appuntati strali di tutti i generi, creando un vero pandemonio che potrebbe portare ad un nuovo direttore della Mostra, al posto di De Hadeln, subentrato a Barbera, licenziato pochi mesi orsono.
Quale destino per il Festival? Mah, affidiamoci al nostro consolidato stellone.
Di: Giovanni Scolari
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