Pierangelo Taboni
Arvo Pärt ribelle (la scura barba anacoretica, l’eloquio meditato, un’estetica fatta di sottrazioni).
Keith Jarrett camuno (l’improvvisazione veemente, le inattese plaghe poetiche, la convulsione corporea).
John Cage fra i Pitoti (il pianoforte trasfigurato, la gioia infantile dello scarabocchio sonoro, l’inoltrarsi nei territori inviolati dell’arte).
Ogni definizione coglie un aspetto del musicista Pierangelo Taboni, nessuna lo circoscrive né lo soddisfa.
Compositore (sua la colonna sonora del docufilm «And then the morning came», regia di Wladimir Zaleski, dedicato alla figura del mecenate e collezionista Giorgio Franchetti, presentato in settembre alla Ca’ d’Oro di Venezia, in primavera anche a Brescia); performer (ha sonorizzato numerosi spettacoli teatrali: in febbraio ha messo in scena la storia di «Guerra Angelo», in coppia con l’attore Filippo Garlanda; in marzo è stato il turno di «Fiumi»: voci, suoni, immagini e racconti di luoghi e genti solcati dal Chiese e dal Grigna); concertista-improvvisatore (l’ultimo suo concerto salodiano è una creazione estemporanea per pianoforte preparato – ha mozzato il fiato per potenza e visionarietà). «La mia musica miscela primitivo e sublime, escursioni giganteggianti e poetiche dell’effimero -spiega Taboni-: alterno semplici linee e intrecci memorabili, allineo ampi gesti e impercettibili vibrazioni sotterranee. Arretro su posizioni (apparentemente) ingenue per poter spiccare un salto più lungo. Sono entrato in una fase di tensione creativa solitaria e visionaria in egual modo. Ho ridotto la dimensione pubblica, conduco una vita schiva e “boschiva”; numerosi e gravosi impegni mi obbligano a studiare di notte, ciò nonostante, in tali costrizioni, provo una libertà profonda. E’ una sorta di anonimato di cui ho assoluto bisogno. Un “nuovo” Taboni sta per nascere». «Al pianoforte racconto l’interiorità e il mondo – prosegue l’artista camuno-. Ogni mio récital è un trionfo dell’energia e della prepotenza, come se fosse l’ultimo. Amo “preparare” lo strumento, sulla falsariga di Cage e del gruppo romano Nuova Consonanza (quello storico di Franco Evangelisti ed Ennio Morricone). Nel progetto salodiano -Stati d’acqua- reinvento al pianoforte i tre stati dell’elemento (solido, liquido e gassoso): li faccio corrispondere a zone “geografiche” della tastiera (sezioni grave, media, acuta), a densità armoniche (note singole oppure cluster, accordi in posizione stretta o lata, modulazioni contro fissità, dilatazioni/contrazioni), a timbri, atmosfere, sonorità (scure, ovattate, taglienti, vellutate, pungenti), a una certa tipologia di figurazioni pianistiche (improntate a stagnazione o scorrevolezza, usando note ribattute, melodie accompagnate, incroci di mani, polifonia). Inserisco tra le corde catene, viti, stagnole, sughero, carta, gomme; vi lego corde, lacci, spaghi, sonagli. La parte grave dello strumento corrisponde al gelo, evoca ombre, suoni fermi, ghiacciati, vento glaciale, colate di vetro, ronzii; nella zona centrale del pianoforte sfrutto la tradizionale dimensione cantabile, naturale, con immagini fluide, liriche e dolci; con le note acute giungo a rarefazioni, aloni, bordoni, vapori».
Modelli, punti di riferimento?
«Sto frequentando accanitamente i Maestri (Bach, Brahms, Grieg, Bartok), una pulizia interiore, per rigenerarmi, rinascere, ricostruirmi un’identità. Sento il bisogno di ispirazioni e nutrimenti non strettamente musicali: lettura, poesia, drammaturgia, indagini antropologiche, canzoni d’autore, artisti plastici. Ne estraggo i succhi vitali. Desidero sconfinare, voglio mischiarmi, mi piacerebbe diventare un radar che capta, elabora, sceglie. Come uno scultore, sto togliendo: smusso, scalpello, alleggerisco. Vorrei svuotarmi per essere più vero. Preferisco osare, eccedere, tentare il passo più lungo della gamba, piuttosto che osservare da lontano; almeno, per dirla come la tartaruga ribaltata di una poesia di Trilussa, “queste so’ scappatelle / che costano la pelle / ma, prima de morì, vedo le stelle”».
ENRICO RAGGI
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