Pierangelo Taboni a Manerba del Garda

| 1 settembre 2009
Pierangelo Taboni


Accade ai grandi artisti: quanto più credono di parlare soltanto per loro e della propria coscienza, tanto più invece raccontano di noi; più si figurano di raccontare a se stessi la loro vita, personalissime passioni e scoperte, più descrivono la nostra vita e mettono a nudo la nostra anima. Così ci è sembrato muoversi il pianista bresciano Pierangelo Taboni, nel secondo appuntamento delle “Armonie sotto la Rocca”, l’altra sera alla Pieve di Manerba, nuovamente splendida dopo i recenti restauri per il terremoto. Taboni pare accorciare la distanza che separa la musica dall’esistenza, è un poeta innamorato della realtà. E’ anche un temerario: con che faccia osa presentare un recital simile al leggendario disco che Arturo Benedetti Michelangeli consegnò alla storia (quello di cui Baricco racconta in un suo Barnum)? Ma la fortuna arride agli audaci: la sua esecuzione ha aperto domande e ferite che sarebbe assurdo volere risolvere in breve. Nella Sonata di Galuppi l’ombra prevale sul chiarore da mare aperto: ma il do maggiore non era la tonalità della luce? Microfrasi cariche d’energia improvvisamente depotenziate, pedalizzazione generosa, dalle regioni gravi salgono borbottii. S’intravede una Venezia notturna e livida. Il pianista camuno si esalta nell’elettrica polifonia veloce della Partita n. 2 di Bach. Forse la Sarabanda tende ad adagiarsi, la pronuncia delle melodie canta più che recitare, i ritmi puntati barocchi non saranno mai abbastanza regali e affondati. Nei ritornelli il compositore/improvvisatore Taboni è avaro, quasi intimorito nell’aggiungere qualcosa di suo: siamo nani sulle spalle di giganti, mica pidocchi. Ma che importa, quando tutto vola, s’inarca, ridiscende e nuovamente scatta, con esattezza, orgoglio, limpidezza? Le dita di Taboni modellano poi un Mozart nervoso, luciferino, che impreca e si agita sul lettino psicanalitico di Hildesheimer. Una dinamica “a terrazze” scandisce seghettati contrasti, accenti puntuti guizzano dappertutto, affaticate soste e perentorie ripartenze. Stop and go, Wolfgang. Dalla porta socchiusa della wunderkammer mozartiana fuoriescono inquietanti figure: scheletri danzanti, ectoplasmi, rimpianti, occasioni perdute, risentimenti. Ritorna alla memoria una lettera alla moglie: “E’ un certo vuoto che mi fa male, un certo desiderio che non è mai appagato, dura sempre, anzi, si accresce, di giorno in giorno…”. Nella beethoveniana op. 111 si coglie un profondo lavoro analitico. La 3^ Variazione dell’Arietta è jazzy, swingante, brasileira. Emerge l’eroico e commuovente tentativo di Beethoven di salvare la Forma. Ci troviamo su una scacchiera smisurata e asimmetrica: al posto dei classici pezzi, fuoco e gelo, carezze materne e paura della morte, l’uomo e Dio. Cosa chiedere di più

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