Padova – L’IMPRESSIONISMO DI ZANDOMENEGHI

| 4 gennaio 2017
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100 capolavori per il suo centenario

Roberto Longhi, il più grande critico d’arte del Novecento, fu emerito esperto di arte antica e moderna, “scopritore” del sommo talento pittorico, tanto per fare un esempio, del “Caravaggio” – autore di saggi illuminati su “Paragone”, storico mensile di arte figurativa da lui stesso fondato, praticamente fino alla sua morte nel 1970. Nelle sue innumerevoli pubblicazioni, tra studi e ricerche, dopo il XVIII secolo si passa al Novecento e ai bellissimi giudizi su artisti in voga in quegli anni, su tutti Umberto Boccioni e Giorgio Morandi. Egli “saltò”, per così dire, in pratica tutto l’Ottocento nei suoi differenti periodi e stili. Ma, se per lui, questo costituì una regola, troviamo un’eccezione in quel testo fondamentale che è “L’Impressionismo e il gusto degli italiani” pubblicato nel 1949 come prefazione all’edizione italiana della “Storia dell’Impressionismo” di John Rewald in cui scrisse: “Non è da considerar poco che “Zandò” fu pur l’unico italiano a stringere relazioni lunghe e cordiali con Manet, Degas, Renoir, Pissarro, Sisley; l’unico a lavorar con questi ultimi in campagna “sur le motif”; l’unico ad essere stipendiato non dal solito Goupil ma da Durand-Rouel; e cioè, giova sperare, per intenti non esclusivamente speculativi.” L’appellativo “Zandò” era l’abbreviazione di Zandomeneghi, validissimo pittore che svolse la sua attività tra la seconda metà del XIX secolo e la prima parte del successivo. Raccontiamolo in breve. Nato a Venezia nel 1841, Federico Zandomeneghi , di grande talento naturale e pieno di temperamento, ha però preferito la pittura alla vocazione di famiglia che lo avrebbe dovuto portare alla scultura. Il nonno Luigi era stato grande amico di Antonio Canova e il padre Pietro aveva realizzato il grandioso Monumento di Tiziano nella basilica dei Frari a Venezia (“Vissi sin dall’infanzia in mezzo all’arte perché figlio e nipote di scultori che al loro tempo ebbero fama e la meritano”). Fuggito da Venezia per evitare di essere arruolato nell’esercito austriaco, dopo avere seguito Garibaldi nella spedizione dei Mille, a Firenze (1862-66) Federico frequentò i “Macchiaioli”, spesso nel loro ritrovo preferito il “Caffè Michelangelo”, divenendo particolarmente amico del critico Diego Martelli. Nel 1866 tornò a Venezia e, dal 1874, si stabilì a Parigi dove entrò in contatto con gli “Impressionisti”, in particolare Degas e Renoir, e s’inserì da protagonista, insieme a Giuseppe De Nittis e Giovanni Boldini, in quella straordinaria officina della cosiddetta “pittura della vita moderna”. Espose al “Salon des Indépendants” (1879, 1880, 1881, 1886) e, negli ultimi anni del secolo, ebbe un rapporto particolarmente felice con il grande mercante Durand-Ruel. Ebbe una sua “Personale” alla Biennale veneziana del 1914, alla quale, allora all’età di 73 anni, non partecipò. Morì a Parigi l’ultimo giorno dell’anno 1917. Soltanto dopo il 1922 la sua arte ottenne un adeguato riconoscimento. La Fondazione Bano, da anni impegnata nella valorizzazione e divulgazione dell’arte italiana del XIX e XX secolo, nella sua sede a Palazzo Zabarella, dopo le rassegne monografiche dedicate, in ordine di tempo, a Boldini (2005) e a De Nittis (2013) completa la “Triade” dei cosiddetti “Italiens de Paris” (poi, più avanti, ne sarebbero venuti altri) promuovendo (in collaborazione con Fondazione Antonveneta e Comune di Padova) una completa monografica quale dovuto omaggio a quest’altra importante figura artistica, e momento più adatto non poteva essere scelto visto il Centenario della sua scomparsa. E quale miglior curatore se non Fernando Mazzocca (a mio parere l’attuale critico “ottocentista” italiano per eccellenza)? Da tempo Direttore culturale della Fondazione, qui in coppia con Francesca Dini (altra “presenza” abituale per eventi espositivi in questo spazio) ha selezionato un centinaio di opere, tra dipinti ad olio e pastelli, che ricostruiscono la vicenda di un protagonista di una stagione straordinaria della pittura italiana dell’Ottocento. Zandomeneghi è stato sulla scintillante scena parigina tra ‘800 e ‘900 il cantore della donna emancipata, rappresentata nei vari momenti della quotidianità, dal rito della toilette alla passeggiate al Bois, dalla lettura alle serate mondane a teatro; testimone e, al tempo stesso, “attore” principale del passaggio da un naturalismo impegnato, con quadri di denuncia sociale, verso una pittura che ha saputo interpretare in maniera molto personale le novità dell’Impressionismo. Attraverso uno stile inconfondibile ed un uso raffinatissimo della tecnica del pastello, Zandomeneghi ha fissato le fisionomie, i gesti, il fascino della Belle Époque, creando l’immaginario femminile della donna parigina. Il percorso espositivo fa riscoprire un vero talento e una personalità artistica finora non adeguatamente valorizzati, attraverso dipinti in gran parte sconosciuti al grande pubblico, provenienti dalle più importanti e prestigiose istituzioni museali (come la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti di Firenze, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza, Museo Civico di Palazzo Te di Mantova) e dalle più esclusive raccolte private italiane (tra cui spicca la “Sacerdoti/Ferrario”), inglesi e francesi. Ma Zandò, da come è ben dimostrato qui, è stato anche autore di belle nature morte, composizioni con frutti, fiori (tra questi il bellissimo vaso di violette appena colte). Nel testo introduttivo all’interno dell’esaustivo catalogo edito da Marsilio, Federico Bano, Presidente della Fondazione, sottolinea che Zandomeneghi “è stato un formidabile regista di sguardi, di gesti, di dettagli che di solito sfuggono, elaborando una pittura di atmosfera, basata su una straordinaria ricerca della luce e del colore. Come negli Impressionisti, più che i soggetti, spesso gli stessi, conta il modo di renderli e interpretarli attraverso una ricerca sempre costante di variare le infinite risorse di una pittura che in lui è sempre di alta qualità e che va dunque goduta nel suo magico splendore.” Francesca Dini, termina il suo contributo in catalogo con queste parole: “Nonostante le numerose apparizioni del pittore sia a Parigi sia a Manchester che a New York (quest’ultima mostra si era tenuta nel 1909 nelle sede americana della Maison Durand-Ruel), i giornali italiani non esitarono a presentarlo come “un grande artista dimenticato”, qualificandone la poetica come “la forza della grande pittura veneziana passata al setaccio delle seduzioni parigine”. Occorsero quasi quarant’anni e l’indefesso lavoro di sensibilizzazione e di divulgazione compiuto da Angelo Sommaruga e soprattutto da Enrico Piceni perché la retrospettiva allestita nell’ambito della Biennale Veneziana del 1952 sancisse il definitivo recupero dell’insigne artista e la sua meritata valorizzazione anche in Italia; il secondo, già vent’anni prima così affermava: “Il pittore è servito a meraviglia dalla sua tecnica, una sorta di libero divisionismo che pettina, vorrei dire, agilmente i toni mantenendone la freschezza e il nitore: la pennellata è duttile e sottile, il pastello distribuito a tratteggio o a strofinatura con leggerezza di polline.” Sempre in catalogo è presente un’importante ricognizione storica nel saggio “Luigi, Pietro e Andrea Zandomeneghi, un secolo di scultura veneziana (1778-1866)” di Elena Catra. Alessandro Malinverni in   “Ricci Oddi e les italiens de Paris” parla della nascita dell’attuale museo piacentino per volontà del suo fondatore di creare una collezione sulla nuova arte italiana dei suoi tempi. In una mia personale conclusione mi sento di dire: bell’artista, Zandomeneghi, con la sua visione poetica della realtà del vivere quotidiano; e bella mostra questa, anche per il professionale allestimento operato dal giovane architetto Enrico Bano che oculatamente accosta ai dipinti vari commenti su di lui da parte di critici lungo il percorso espositivo. Ad una mia impressione se, in alcune situazioni, il pittore italiano possa raggiungere il livello di Renoir    (che sicuramente aveva conosciuto e frequentato), Mazzocca, con tono convinto, mi ha risposto: “Non solo, lo supera!” Una nota aggiuntiva per la sede di Palazzo Zabarella: è il primo spazio espositivo in Italia che valorizza e protegge il patrimonio storico ed artistico grazie ad un innovativo sistema di climatizzazione e sanificazione dell’aria in grado di mantenere stabili e controllate temperatura ed umidità e di abbattere inquinanti chimici e batterici con un microclima unico; all’ingresso sono disponibili audioguide sanitizzate dopo ogni utilizzo per la massima igiene dei visitatori.

Fondazione Bano – Palazzo Zabarella, Via degli Zabarella 14, Padova; fino al 29 Gennaio 2017; Orari: da martedì a domenica 9.30-19    (la biglietteria chiude alle 18.15); Informazioni: Tel. 049 8753100; Sito Internet: www.zabarella.it

Fabio Giuliani

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