Officina delle parole di Paolo Veronese

| 12 agosto 2023
libro Paolo Veronese

È fresca di stampa la nuova silloge di Paolo Veronese, poeta più volte premiato anche al concorso “Dipende Voci del Garda”.  L’opera ha vinto la prima edizione di: “Brescia Fabbrica poesia”.

Inconfondibile il suo stile. Elegante, coltissimo, ha al suo attivo oltre ventimila poesie. Ognuna di esse rappresenta uno scrigno prezioso, di rara bellezza. 

Materia e pensiero si incastonano dando vita a gioielli di parole ed a preziosi arazzi in versi. Come in “Telaio del sensibile”, la poesia che apre la raccolta.

La ricerca poetica di Paolo Veronese s’eleva verso l’assoluto e più volte vi compare, quasi come in un testamento, la presenza divina.

Tutto il creato viene poi scandagliato con una curiosità da anatomista, in grado di coglierne le più impercettibili fibre, le invisibili venature.

Spesso sublimi, talvolta elegantemente crudeli, le sue poesie incantano, ammutoliscono, scavano dentro un forziere dove amore e morte s’alternano, “come filo spinato”.

Paolo s’interroga anche sulla poesia e sui poeti, andando anche “contro il poeta (in lui)”.

“I poeti? mi ascolti, quelli forse/ riusciamo anche a definirli, vede/ quella torma di folli? Ecco: bipedi/ implumi, tanto brigano e dimenano/ due alucce striminzite, son galline/ spennate e sbatacchiate da Diogene/ «dov’è l’uomo? dov’è il poeta?»

è piccolo/ e stridulo di voce, collo in mano/ al primo che ne urli il nome, beato/ d’essere nella gabbia del bestiario./  Ma la poesia, quella è l’ippogrifo/ la poesia è una pietra lunare.”

Paolo, questa tua poesia mi ricorda l’Andrea Chénier, quando Robespierre negando la grazia al poeta, scrisse: “Anche Platone mise al bando i poeti nella sua Repubblica”. Cosa ne pensi?

Platone è un monstrum dalla grandezza insondabile, anche se non sempre si può essere in accordo con lui. La Repubblica è un testo adorabile, ma descrive uno stato-chimera inattuabile, governato da filosofi, astratto come tutte le Utopie, sempre di moda in ambienti “intellettuali” (parolaccia). Dotti che spesso, in quanto tutori autoproclamatisi dell’intelletto sognano una griglia sociale che si cala dall’alto, persone gestite come polli in gabbia, mutatis mutandis il socialismo reale, i mostri della ragione: quesito attualissimo in tempi in cui si esorta e plaude al controllo di ogni infinitesimo grammo di umanità a mezzo tecnologico (c’era una volta…). Penso che dica bene Tocqueville: Per certe cose il più mediocre politico «vaut mieux» – è preferibile al più brillante intellettuale. Serve arrangiare alla meno peggio una macchina statale che è costituita da individui e aspirazioni personali, sogni e desideri. La società non esiste, sentenziava la Thatcher. Su Robespierre e tutto quel baraccone osannato che è la Riv. Francese mi taccio, ne parla male in modo autorevole Hans Sedlmayr nella “Perdita del centro”, libro aureo e da rispolverare. “Andrea Chénier” non l’ho mai sentita, ma il libretto di Illica è bello. Ultimamente mi dedico alla lettura di libretti d’opera, nell’Ottocento i poeti erano pure mestieranti richiesti. Ora be’… La poesia citata serve per mettere dell’ironia sulla bilancia, con tutte le manie della categoria. Non sopporterei altrimenti tutto l’ammasso di taccuini, quaderni e fogli che ho imbrattato.

Officina di parole, fabbrica di poesia: in che modo la poesia può essere non solo astrazione, ma incidere concretamente sulla realtà?

Domandina tra le più facili, se fossi incisore saprei rispondere l’ovvietà. Ciò che veicola l’astrazione, questi balletti di colore di Kandinskij, i cromatismi di Klee devono precipitare in forma, necessariamente, per essere espressione, per esistere. L’origine rimane l’ignota cifra, il principio creatore non può che rivolgere gli occhi stupiti (stupidi) al cielo, al Verbo che si fa strada fra le asfittiche profondità cosmiche e si manifesta qui, ai nostri piedi terrestri, nella nostra piccolissima vita. Una volta non ci si vergognava a parlare di ispirazione, di illuminazione, come una folgorazione che fa cadere quel Santo sulla via di Damasco. Il mestiere di poeta (che libro ricco di spunti, quel crocevia di poeti raccolto a Camon), è una rabdomanzia, un auspicio da elementi mossi da forze misteriose, un getto di dadi o di ossa. Vates, profeta-poeta presso i Latini, era anche l’aruspice che osservava il volo degli uccelli e ne traeva vaticinii, individuava i segreti legami tra le cose, gli eventi, le parole infine. Ma davvero non si può rispondere esaurientemente, se non appunto confessare la propria ignoranza, come già fece candidamente Borges. Quanto ho amato perdermi nei suoi labirinti… Poi c’è da fabbricare, certamente, operare da accordatore, affinare tecnica e cultura, perché possa suonare. Io sono pigro nel lavoro di lima, lo ammetto, cerco di adattare i versi come ‘escono’ al conio. Qualcosa mi è riuscito di forgiare bene, in fondo provengo da una schiatta di fabbri ferrai. Pure, non a tutti è dato di cantare, esordiva Esenin in una sua poesia. Che la musica sia necessaria, una metrica anche fuori dal canone, insegnava Eliot, è imprescindibile. E leggere, leggere buona poesia, può accendere una scintilla che bruci il fienile. Perché la poesia deve far fuoco, straziare la notte di giocose lingue, crepitare nel consumo di sé. Se la mattina si troverà segno di qualche carboncino vorrà dire che c’è stata.

Qual è la poesia della silloge che ti è più cara e da quali notti insonni, situazioni stravaganti o momenti assolutamente ordinari, è nata?

Riprenderei la domanda precedente: nella poesia io inciampo, oppure si palesa da un luccichio fra erba e asfalto; osservando magari piccoli oggetti, riflessi, udendo voci lontane e annodandovi i ricordi, l’infanzia ingoiata troppo presto, l’esca di solito non è prevedibile. Forse le due che cominciano questa silloge di sillogi, che è un florilegio di raccolte che non esistono, o forse che si o forse che no, solo in invenzione (come Tlön, Uqbar, Orbius Tertius): Telaio del sensibile, un titolo che mi piacque assai, e Corpo della luce. La prima l’ho scribacchiata in un bar vicino al Vittoriale, l’altra una mattina ad ora antelucana, alternando sbadigli e strizzate di occhi per vedere quello che eseguivo sulla tavola cerata che è il cellulare, ultima ipostasi dei materiali di scrittura. Momenti ordinari, direi, le notti insonni sono più per la prosa, credo. Si deve raccogliere, vedere, toccare, bruciarsi a volte, stipare la fisicità pesante del mondo, del piacere e del dolore e dell’estasi in una trasposizione scritta, una pagina ahimè insufficiente a vivere il momento, ma che pur gracile, si carichi un’anima, e cammini. In cerca della via, della verità, della vita.

ELISA ZANOLA

  

Tags:

Commenti

Salvato in: Libri, PERSONAGGI
×