LETTI DI FANGO: Case chiuse tra storia e memoria

| 3 ottobre 2011
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E’ costume recente di un certo giornalismo in bilico fra l’acido e il femministeggiante abbozzare sagome al vetriolo di idealtipi maschili, narrati nelle loro più bieche abitudini, dall’ostentazione degli optionals – siano fasce muscolari o cilindri del motore – alla negazione a oltranza di ogni evidenza, anche in flagranza d’adulterio. Ma questo esercizio retorico di classificazione del mondo virile trae spunto da una cultura secolare di segno opposto che circoscrive il femminile in insiemi d’ordine morale. L’intramontabile antitesi fra donne oneste e puttane, grande classico di tutti i tempi, è giunta intatta fino ai giorni nostri. Per riproporsi alle coscienze in tutta la propria subdola ambiguità. Con l’entrata in vigore della Legge Merlin, alla mezzanotte del 20 settembre 1958, si scrisse la parola “fine” sui 560 postriboli autorizzati d’Italia, determinando sia un’irreversibile emorragia di regolari marchette sia il contestuale affollamento dei marciapiedi. Se la conseguenza a breve fu l’affittanza di antri malsani e inospitali, nel lungo periodo prese forma e sostanza un’ esaltazione del ruolo sociale della prostituzione da bordello.
Una commistione di giovanilistico “amarcord” che dimostrava di apprezzare i lacci del controllo sanitario e la celebrazione dell’ordine patriarcale, di cui la casa di tolleranza rappresentava un basilare pilastro. Tra fascino onirico e viscerale nostalgia, la struggente malinconia della memoria si tramutava in fenomeno di costume con Federico Fellini e il suo casino di fine anni Trenta, rieditato per il set del film “Roma”. La capitale della lussuria che si era ovattata nei velluti, fra i riverberi dei lampadari a goccia e l’arte a buon mercato delle allegorie erotiche, indugiava assorta nel rito delle interminabili “flanelle”, quell’oziosa e tiepida permanenza nei salotti che prolungava l’attesa del piacere fra maliziosi colpi d’occhio e sordide conversazioni. Una sorta di compensazione per la frenesia imposta al coito a pagamento, scandito dall’inesorabile scorrere dei cinque minuti della “semplice” che, per giungere al capolinea, sforava nella “doppia”. Roma interpretava con consumata maestria il ruolo ambiguo della madre amorosa, le cui sottane emanavano sentori di speranze e d’illusioni. “Nun ce pensà chiù, guagliona bella!”. Donna Carmela, la pingue tenutaria del “N. 57”, leniva gli animi delle più ingenue con balsamo partenopeo. “Asciùtate sti uocchie bellie e acchiappa i clienti! Chista è a legge do casino: il cuore vuoto e pieno il borsellino!”. Così, per accatastare una sull’altra le marchette, la strategia della seduzione faceva ovunque capolino dagli spacchi delle sottovesti, dove reggicalze e le giarrettiere impreziosivano l’accesso alla via più ambita. Se i consumatori cattolici gradivano il chiaroscuro, l’accennato, la semplicità borghese della biancheria lievemente rosata, i militari avanzavano pretese dalle tinte più forti. Ma, a questo punto della storia, è bene ricordare che i pizzi macramé, le baiadere di tulle e le nuvole di crèpe delle case d’alto bordo si declinavano nei bordelli proletari in garze e cotonine. Pavimenti in terra battuta, letti cigolanti e freddi incitamenti a una rapida conclusione accoglievano i clienti nelle case chiuse gardesane che, come la “Scaletta” di Salò, inoculava il peccato e il disprezzo fra le case e le botteghe di paese.Tra i sentori acri di lisoformio e le ansie da contagio di sifilide, si consumavano amplessi brevi, indifferenti, insensibili che non lambivano né i volti né le labbra delle signorine in arrivo e in partenza a ogni scadere di quindicina. Un negarsi che valeva un chiudersi, pur nell’apparenza di una totale disinvoltura. Il possesso del corpo femminile per mezzo del denaro – strumento di scambio tradizionalmente detenuto dagli uomini – rappresentava per il maschio la valvola di sfogo della propria naturale libido. E nel contempo, dileggiandone la professione, catalizzava ogni impurità nella carne della donna. Lo Stato lenone partecipava alla riduzione a strumento e a capro espiatorio della donna scostumata. Costumando all’accudimento della casa e della famiglia le altre: le madri, le figlie, le fidanzate. In una tragica commedia delle parti, sceneggiata dagli uomini ma replicata di generazione in generazione dalle donne, che ha sacrificato la libertà e la spontaneità degli individui sull’altare della morale. Una sorta d’infibulazione incruenta che ha accomunato le prostitute e le donne oneste in un unico destino. La negazione del proprio desiderio.

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