L’ARTE GENTILE DI PAOLO GIACOMETTI

| 1 febbraio 2003

Dipende- Giornale del Garda incontra il pianista italo-olandese Paolo Giacometti, che sta proseguendo l’integrale pianistica di Gioachino Rossini (Channell Classics).

 E’ un Rossini sicuramente poco conosciuto, a tratti inquietante, quello che emerge dai suoni d’epoca accarezzati da Giacometti: per l’incisione il nostro pianista milanese (di nascita) ha utilizzato pianoforti antichi, un Pleyel del 1858 e un Erard del 1849, strumenti davvero magici e registrati magnificamente dalla Channell.
Questo Rossini pianistico è un artista volontariamente isolato dal mondo, che fa musica per sé e per gli amici, che compone esclusivamente per i suoi frequentatissimi sabato sera (in cui univa cibo e musica); un Rossini che abbandona le scene, che si esilia nel silenzio e nella pace del salotto, ma che è pure attento a quanto accade intorno a lui, sempre vigile, graffiante e mordace. Si autodefinisce “pianista di quarta classe”, eppure sperimenta nuovi percorsi, nuove possibilità e atmosfere inedite. In Quelques Riens, per esempio, ci sono momenti percorsi da brividi di angoscia, istanti in cui il sentimento della morte fa capolino, viene combattuto, esorcizzato, forse vinto. Altri brani sono invece costruiti con regolarissime frasi di quattro battute, ma occultate con incredibile astuzia, mascherate da incredibili depistamenti, che rendono l’ascolto un’esperienza nuova ed insolita. Giacometti dà prova d’essere un interprete eccezionale: sottolinea queste mille sfumature con consapevolezza estrema, cosparge ogni battuta di nuances, colma i brani di mistero e di esitazioni. Fa giustamente risplendere il canto con un’attitudine servizievole e celebrativa: il pubblico della metà dell’800 nel teatro vive il suo sogno, conosce più Meyerbeer di Beethoven, Schubert e Liszt, ed è questo che Rossini racconta con questi suoi suoni strumentali. In Giacometti non c’è mai arte oratoria, ma il soliloquio, il parlare tra sé. La dimensione del pubblico è cancellata con tocchi di gentilezza assoluta. Si ricrea un salotto popolato da fiabe e fantasie, mondi lontani, che Giacometti evoca con movimenti da illusionista. In questa musica, ogni tanto, galleggia sulla superficie, un sottile umore nero, affiorano malattie psichiche, ombre di ambiguità formale e linguistica. E Giacometti ne tiene conto. A volte ricerca la melodia infinita, che non si ferma mai, un canto metafisico, lungo lungo. Altre volte traspare un sorriso divertito e superiore.
Quale modernità possiede il Rossini pianistico che Lei sta incidendo?
“La modernità più evidente risiede innanzitutto nel carattere: Rossini ci mette di fronte ad un’ironia superiore, sottile e veramente raffinata. Tra i pentagrammi occhieggia sempre un sorriso, ora bonario ora corrosivo, che ritroveremo solo più tardi in Saint-Saens, Poulenc, Satie; questo pianismo rossiniano, per esempio, è molto spesso musica a programma, con allusioni continue ed insistite a materiali extramusicali, con continui giochi sonori, con un pressante desiderio di divertimento ed una costante lontananza dalla retorica romantica. Il lato buffo di Rossini, che emerge in queste pagine, non sta solo nello stile, ma pure nei contenuti scelti, nel saper motteggiare con poche note colleghi, ascoltatori, esecutori. A volte l’ironia è rivolta contro se stesso, altre volte il riferimento è a fatti politici, sociali, di costume dell’epoca. Quando suono queste pagine mi chiedo chi stia prendendo in giro Rossini, e la risposta non è mai semplice. Lette col senno di poi, non è un caso che queste composizioni siano nate proprio a Parigi: i musicisti francesi che sono venuti dopo Rossini risultano indiscutibilmente influenzati dal maestro italiano. Il legame fra Rossini e la storia musicale parigina otto-novecentesca merita di essere indagata anche ad livello più profondo”.
Mario Bortolotto ha intitolato un suo studio, Origini francesi del Novecento musicale: anche Lei conferma che alle origini del ‘900 ci sia un pezzo di Rossini?
“L’ipotesi è assolutamente fondata, almeno in base a queste composizioni pianistiche che ho affrontato. Certo, qui Rossini guarda al passato, più che al futuro, ma proprio questo suo sguardo lo rende molto moderno”.
Si riferisce alla scrittura pianistica?
“Sì, anche a quella, ma non solo. Per prima cosa, Rossini è completamente disinteressato alle mode dell’epoca, alle convenzioni, non ricerca l’applauso, il consenso del pubblico. Ignora programmaticamente i contemporanei, Chopin, Liszt, Wagner. La sua scrittura pianistica è assolutamente classica, totalmente mozartiana: bassi albertini, note doppie, linee singole che si muovono isolate, semplici e immacolate formule di canto-accompagnamento. Per dirla con una frase ad effetto, questo Rossini è un “Mozart romantico”. Lo stile e il linguaggio sono classici, ma l’effetto, i risultati, lo spirito sono moderni: è proprio un singolare cortocircuito temporale! Non dimentichiamo, poi, che lo stile classico qui è portato all’estremo: certi moduli pianistici sono reiterati all’infinito e questo confonde, annulla la percezione dello scorrere del tempo. Oppure, si sfruttano zone estreme della tastiera, con sonorità perlacee, clavicembalistiche, neutre. O, ancora, Rossini non usa il pedale (fatto sorprendente, se pensiamo ai pianisti dell’800), ha un tocco argentino, è amico di interpreti (Diémer, Aristide e Louis Farrenc, Amédée de Méreaux) che vogliono recuperare la musica barocca francese. Il suo pianoforte diventa così neoclassico e novecentesco (la neoclassica Sonata di Stravinsky è del 1924, ma la distanza fra i due non è poi così enorme come le date fanno supporre). L’originalità di Rossini, per l’ennesima volta, è interessantissima. Il salotto dell’800 ci riserba quindi altre sorprese, disvela strade oggi poco conosciute, ma fruttuose nei risultati che produrranno e dei quali, noi ascoltatori moderni, abbiamo oggi coscienza”.
Quali sono le difficoltà maggiori, nell’affrontare questo pianoforte rossiniano?
“Ci sono difficoltà tecniche anche notevoli: per esempio, può accadere che un tema innocente venga sottoposto ad incrementi progressivi di velocità, a raddoppi continui di tactus, fino ad una variazione che presenta velocità doppia sommata a scale ad ottave e non più a note singole. La pulizia dell’esecuzione deve essere totale: non ci sono trucchi da praticare, come puoi permetterti con altri autori. In questo caso l’ironia poteva essere rivolta ad un pianista particolarmente bravo nelle ottave, che frequentava il salotto di Rossini nei sabati parigini. Oppure era una sfida ideale che Rossini proponeva al pianista famoso di passaggio a Parigi in quei giorni. Le difficoltà tecniche di Rossini sono libere, giocose, aeree, motivate da necessità interiori e compositive, o dal sadismo che Rossini prova nei confronti del pianista spaccone e virtuoso. Liszt scrive difficoltà enormi, però sono tutte funzionali ad un effetto, funzionali alla sonorità del pianoforte che le produrrà, funzionali alla fisiologia della mano e alla musica che viene fuori. Rossini invece usa un classicismo estremo. E la difficoltà tecnica diventa nuova, una difficoltà non romantica, mentale e digitale insieme”.
Sono frequenti i legami tra questa musica per pianoforte di Rossini e la sua musica vocale?
“I legami sono continui. Quasi tutti i brani pianistici di Rossini potremmo definirli mendelsshonianamente “Romanze senza parole”. Il canto è sempre sovrano: nelle linee melodiche si ode una costante coloritura vocale. Però in certi pezzi (Hachis romantique, dal primo volume) la scrittura è puramente pianistica, non funzionerebbe assolutamente su altri strumenti”
Rossini si muove a suo agio anche nelle grandi forme pianistiche?
“Queste sono quasi tutte forme piccole, ma ricchissime di varietà formale. Ci sono pezzi polifonici, ciclici, legami tonali e motivici. Ti accorgi che, comunque, quello che lui vuole ottenere lo ottiene con padronanza eccezionale. Spesso la raccolta disegna un polittico, fatto di tanti piccoli quadretti legati fra loro. Non è un caso che alcune raccolte siano costituite da 24 brani, sull’idea dei 24 Preludi di Chopin. Si dà il caso, poi, che Rossini ammirasse molto Bach e conoscesse bene il Clavicembalo ben temperato. Molto probabilmente Rossini intendeva utilizzare tutte e 24 le tonalità, una per brano, anche se in seguito abbandonò l’idea.”
Cosa le hanno rivelato i pianoforti antichi, nell’interpretare questa musica?
“Gli strumenti antichi danno gioia, ispirazioni, sonorità, stimoli incessanti. E’ un suono molto aperto, che corre molto, profondo e delicato allo stesso tempo. Le corde sono parallele (non incrociate) crea una forte disuguaglianza fra i vari registri. Ma proprio questo fattore è elemento di novità timbrica, è possibilità di più mondi di diversi colori: il canto ha un colore e mentre l’accompagnamento possiede un colore totalmente diverso. Ciò svela ancora meglio le potenzialità orchestrali di questa musica. Suonare il grave o l’acuto o il registro medio, equivale a suonare tre pianoforti differenti! La mia permanenza in Olanda, in questo senso, mi ha aiutato moltissimo: qui la musica antica è pane quotidiano e argomento di studio ormai da decenni. Quando ho proposto il progetto l’accoglienza è stata subito entusiasta. E’ appena uscito un cd dedicato ai concerti per pianoforte e orchestra di Schumann e Dvorak, su Steinway. Il mio sogno sarebbe incidere Debussy su pianoforti originali del maestro francese…”.

Di: Enrico Raggi

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