IL ROCK E’ DIVENTATO GRANDE

| 29 luglio 2004

Il 5 luglio scorso, sono stati celebrati i 50 anni trascorsi dal giorno in cui Elvis Presley entrò in sala di registrazione per incidere il suo primo 45 giri: un giorno che molti hanno voluto considerare come la data di nascita del rock ’n roll. 


La musica del ’900 è diventata grande, e con lei alcune fra le sue più nobili istituzioni. Come gli Who, ad esempio, bandiera della mod-generation degli anni ’60, ed in seguito gruppo fra i più colossali della storia del rock, che proprio in questi giorni festeggia i suoi 40 anni di storia. Un anniversario celebrato con un album antologico intitolato “The Who- Then and Now”, che contiene anche le prime registrazioni in studio del gruppo da 22 anni a questa parte. Si tratta solo di due canzoni, ma sufficienti a dimostrare che la partnership tra Pete Townshend e Roger Daltrey funziona ancora. Il sound di “Real good looking boy” e “Old red wine”, i pezzi registrati a cavallo tra il 2003 e il 2004 (con una formazione completata da Zak Starkey alla batteria e Greg Lake al basso), è quello di una band matura e assolutamente non soggiogata dal proprio passato, in grado di offrire nuova complessità e profondità alle intuizioni di un tempo. A colpire è soprattutto la seconda canzone, un appassionato omaggio alla memoria di John Entwistle, il bassista storico del gruppo morto l’anno scorso alla vigilia del tour americano che ha segnato il ritorno degli Who sui palcoscenici mondiali. Come si ricorderà, il gruppo decise in quell’occasione di onorare comunque gli impegni presi e di partire per il tour con un session man, il bassista Pino Palladino, in sostituzione del compagno di una vita. Decisione criticatissima, che ha rappresentato un macigno per la storia recente del gruppo quasi quanto il successivo scandalo che ha portato all’arresto di Townshend per una storia di materiale pedopornografico trafficato su Internet. Storia conclusasi senza alcuna accusa formale, ma che tuttavia ha aperto un’ulteriore ferita. Il tentativo di sutura è affidato ora a questo disco, ritratto competente e ben assemblato in 18 scatti, ed anche tentativo di offrire una prospettiva di contemporaneità ad un cammino cominciato nel 1964, ed approdato solo l’anno successivo alla pubblicazione del primo singolo “I can’t explain”, non a caso posto in apertura del nuovo album. Da lì è iniziata la scalata del gruppo ad uno status da leggenda vivente: una leggenda alimentata da canzoni divenute epocali (dagli inni giovanili “My generation” e “The kids are alright” a quelli della maturità come “Won’t get fooled again” o “5:15”), da un’attitudine creativa talmente ambiziosa da sfociare nella forma della rock-opera (indimenticabile “Tommy”), da un live-act incendiario che regolarmente si concludeva con la distruzione degli strumenti ed anche, non va dimenticato, dalla presenza in formazione di uno dei personaggi in assoluto più estremi e pazzeschi ad aver caratterizzato la storia del rock, il batterista Keith Moon. Un esempio di genio e infinita sregolatezza, l’incontenibile Moon ha riempito per anni le cronache rock con eccessi di ogni tipo, inimmaginabili per qualsiasi rockstar d’oggi, prima di finire schiacciato dalla sua stessa follia nel 1978.
Fu quello, quasi inevitabilmente, il primo capolinea del gruppo, che tirò avanti ancora per qualche anno incidendo altri due album: l’ultimo, il poco significativo “It’s hard”, nel 1982.
Da allora, gli Who sono periodicamente tornati in scena in varie occasioni, soprattutto per concerti, ma non hanno mai dato segni di una ripresa dell’attività creativa: perlomento fino a questo “Then and Now”, che a quanto sembra potrebbe fungere da antipasto per un nuovo album di studio vero e proprio centrato su un progetto multimediale di Townshend intitolato “The boy who heard music”. E sono già in programma concerti per l’estate e i prossimi mesi Insomma, nonostante tutto gli Who hanno deciso di non mollare per portare ancora in giro il verbo di un’eredità quarantennale prestigiosa come poche.

Di: Claudio Andrizzi

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