IL PIATTO DELLA DOMENICA

| 5 ottobre 2011
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Quando la tavola della nonna era l’asse portante della famiglia

C’è stato un tempo in cui la nonna – vecchia e secca, grassa e storta, bigotta e demodé – si muoveva d’incanto fra le inevitabili beghe di famiglia, con la leggerezza di una libellula in volo sulla palude.  Protagonista indiscussa di quella singolare ribalta di provincia che ogni focolare domestico organizzava in proprio, governava la scena con pugno di ferro e scettro d’alluminio. Mestolo o forchettone, non aveva importanza. L’autorità della nonna prescindeva da ogni spiccio simbolismo, radicando la propria origine negli usi e nei principi  stessi della civiltà contadina. Era la supremazia dell’essere sull’apparire. Per la gran parte di queste donne non c’era altra bellezza da esibire se non l’abnegazione, la costanza nella fatica, nella cura, nella fede. E nel cucinare. Le tavole delle nonne non erano mai rotonde. L’egualitarismo di Artù era quanto di più lontano dalla stratificazione famigliare, di ruolo e di sesso, che la tradizione rurale concepiva come salubre per l’ordine e per le finanze domestiche. Eppure nel potere che vi si esercitava covava l’odore grasso della gallina ripiena e del formaggio fuso, il retrogusto acre delle patate sotto cenere e delle aole salate, i colori di sole della polenta e d’argilla del salame. Era una tirannide dolce, a cui le nuore contrapponevano volti e voci di circostanza, ben intendendo a quale cima da nave fossero legati i loro consorti. Il piacere di dare piacere è una sottile voluttà che vince e avvince, si nutre dell’ebbrezza di scorgere sulle altrui guance il velo tiepido e rosaceo dell’appagamento, quell’espressione di soddisfazione che compensa il dono di sé e dei propri talenti. Dall’androne grigio del camino, un po’ in disparte come chi davvero comanda, la nonna contemplava la propria discendenza far mulinello con i fegatini della minestra, sporgersi sulle ciotole di verdura da campo, rovistare nelle pignatte dello spiedo – rigorosamente cotto dal padrone di casa – a caccia grossa dell’uccellino più smilzo. E intercettava le occhiate languide dei nipoti nel consumarsi di struggimento per la la crostata di fichi e per la ciambella che civettavano sulla credenza. Solo la tregua di grappa e caffè sanciva l’ingresso di qualche breve allusione,  di una tiratina di gonna, di un consiglio, di un’ammonizione materna. Che talvolta bruciava. Ma non lasciava cicatrici. La tavola della nonna era un altare laico dove si presentavano gioie e miserie per condivederne il gusto con lo spezzar del pane. Non da incidentali parenti ma da composita comunità d’affetti. E questo, a ben vedere, è il senso della domenica.

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