Il Brahms italiano: Giovanni Sgambati

| 26 gennaio 2015
giovanni sgambati

«La vita musicale di Roma inizia assai felicemente questo inverno: Giovanni Sgambati darà quelle meravigliose feste della grande arte, che quanti sono maestri ed intenditori rammentano con infinito desiderio». Così Gabriele D’Annunzio, nelle vesti di giornalista de «La Tribuna», recensisce un concerto del compositore e pianista romano di cui quest’anno ricorrono i cent’anni dalla morte.

Isolato alfiere della musica da camera, solitario apostolo del sinfonismo, intrepido missionario di Sonate, Trii e Quartetti, «il Brahms italiano» si oppone al dominio totalizzante del melodramma. Il suo ensemble è nominato con regio decreto «Quintetto di Corte di Sua Maestà»; le sue direzioni d’orchestra spaziano dalla prima esecuzione romana dell’Eroica di Beethoven (1866), a numerose altre novità assolute. La Russia gli offre il posto vacante di Anton Rubinstein, ma lui rifiuta: è in missione per conto della musica strumentale. Fonda il Liceo Musicale di Santa Cecilia a Roma. Diventa l’allievo preferito di Liszt («Sgambati comincia dove molti neppure finiscono», fulmina l’ungherese). Wagner lo dichiara «compositore nel senso più elevato, vero e grande, originale talento che desidererei presentare al mondo musicale», per Busoni è «veneratissimo Maestro». Ruggero Ruocco, Direttore del Conservatorio di Brescia, è stato fra i primi a occuparsi di lui, registrandone alcune primizie pianistiche. «Nel 1991, anniversario della nascita, scoprii un autore stranamente trascurato – racconta – dalla scrittura solida e dall’ispirazione nobile; elegante, dotato di respiro europeo, aperto al vento del rinnovamento, oscillante fra bozzetto e narrazione. In lui convivono pulviscoli timbrici, francesismi armonici, digressioni virtuosistiche e confessioni intime. La sua levatura non è inferiore a quella di altri importanti maestri della sua epoca, come Dvorak, Fauré, Caikovski, che riscuotono maggiori consensi, magari solo per alcuni brani più riusciti». Perché questa diversità di fortuna? «Conta l’essere vissuti in paesi con altra tradizione musicale e, specialmente, di non avere avuto la concorrenza operistica. La conoscenza di questi “minori”, a mio parere, è determinante per comprendere il mondo culturale ed estetico in cui nascono artisti eccezionali per personalità, originalità, visionarietà, capaci di imprimere una svolta alla storia della musica». «Alcune enciclopedie limitano la conoscenza di Sgambati a misere citazioni, condite di luoghi comuni e maldicenza gratuita – si lamenta Alessandro Fortuna, docente al Conservatorio di Vicenza ed esperto “sgambatiano” – Vergognosamente, la sua casa-museo in Piazza di Spagna è stata svenduta negli anni ‘80; il suo archivio, gli arredi, i cimeli di una vita, acquistati in extremis dallo Stato, attendono una degna collocazione nel Museo degli Strumenti Musicali di Roma, nei cui magazzini sono custoditi; molte partiture, tra cui inediti e frammenti, giacciono presso la Biblioteca Casanatense». «Semplicemente, è il più grande compositore italiano di musica strumentale – puntualizza Francesco Caramiello, pianista napoletano che ne ha inciso l’opera omnia per tastiera (la riproporrà quest’anno al Centro di musica antica Pietà de’ Turchini) -. Il suo carattere potrebbe definirsi “wagneritaliano” o “umbertino”. La scrittura eclettica e severa, generalmente considerata segno di incertezza stilistica, è piuttosto un momento di “plenitudine”. Sgambati è alla ricerca di un autentico carattere “italiano”, d’una cultura “alciona”, in analogia con la “musica segreta” dell’estate mediterranea dannunziana: una più decisa alternativa agli influssi nordici. Questa musica è stata ripudiata dagli interpreti in nome di un mitteleuropeismo forzato».
Enrico Raggi

 

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