Guida alla Musica da Concerto

| 28 maggio 2015
Daniil Trifonov in concerto

“Non il santo, ma il grande retore; non l’esploratore, ma l’atleta. Queste sono le figure, prossime all’eroe, del Concerto. Intorno, una platea che ne osserva le gesta». 

Sospira, vagheggia, si emoziona, il compositore bresciano Paolo Ugoletti. E’ un attimo: basta nominarlo, «Concerto», e subito ai musicisti luccicano gli occhi. E’ fresco di stampa lo splendido volume «Guida alla Musica da Concerto», Zecchini editore, 800 pagine dedicate a uno dei generi tra i più amati dal pubblico, con prefazione di Roberto Prosseda e collaborazioni prestigiose (Ciammarughi, Bolzan, Catto, Brusotti). Capolavori antichi e modernissimi, squisitezze e rarità (Bürgmuller, Rosenhain, Wieck, Goldmark), vi trovano spazio. Che ne pensano i protagonisti (solisti, direttori, orchestrali, autori)? «Giustapporre e mettere in relazione una massa di strumenti con uno o più solisti è una situazione musicale fantastica, che amo particolarmente ‒ prosegue Ugoletti ‒. Senza fare uso delle parole, è la forma più prossima al racconto, alla narrazione, quella che più verosimilmente mima la vita reale. Induce il creatore a delineare situazioni sommamente empiriche, pratiche, comunicative, a rifuggire l’astratto. Insomma, è “l’opera” della musica strumentale, con i suoi campioni, tali per i gesti di estrema spettacolarità che compiono. Esibiscono la capacità di superare i limiti tecnici‒esecutivi, le varie possibilità fisiche, manuali, digitali». E’ un genere superato? «Assolutamente no. Cito il recente concerto per sassofono di John Adams, quelli per pianoforte di Chick Corea, Einojuhani Rautavaara, Kevin Volans, Philip Glass, Ned Rorem, quello per violino di Esa Pekka Salonen. Vi aggiungo anche il mio, per fisarmonica e chitarra, appena pubblicato dalla casa discografica Brilliant, solisti Zambelli e Tampalini». Quali concerti fanno più tremare i polsi a un concertista? «I “soli” orchestrali, innanzitutto ‒ risponde al volo Filippo Lama, solista e Konzertmeister dell’Orchestra da Camera di Brescia ‒ Dal “tutti”, in un attimo, ti ritrovi a suonare da solo, con il direttore e l’orchestra intera che stanno ad ascoltarti, magari aspettando una tua stecca! Reputo più scomodo, pericoloso, emotivamente delicato, un assolo orchestrale, piuttosto che l’esecuzione di un intero concerto solistico. Una sensazione confermata da molti orchestrali di lunghissima esperienza». Quale scintilla deve scattare fra solista, direttore e compagine sinfonica? «E’ necessaria una reciproca stima e un’armonica visione di stile, fraseggi, stacchi dei tempi, dinamica ‒ continua Lama ‒. E il continuo ascolto del solista, che potrebbe affrontare alcuni passi in maniera diversa dalle prove; è quella vitale improvvisazione che non può mai mancare durante un’esecuzione pubblica». «Dove non arriva il direttore o l’ensemble, integra il solista ‒ aggiunge il pianista Massimiliano Motterle, apprezzato concertista bresciano ‒. Quando ho suonato il “Terzo” di Rachmaninov con l’orchestra Rai di Milano, mi hanno sorpreso certi timbri (le percussioni, specialmente), profondità, colori e dimensioni che nella fase di studio non immaginavo. Credo che il concerto più difficile sia il “Secondo” di Brahms; faticoso anche il “Secondo” di Prokofiev. Poi c’è l’apparente facilità di Mozart: tutto sembra chiaro, limpido e semplice sulla carta. Eppure qualcosa ci sfugge sempre».

«I giovani musicisti odierni, solisti e/orchestrali, sono bravissimi, fanno tutto quanto c’è scritto, ma faticano a capire cosa ci sia “dentro”, “dietro” e “sotto” la musica ‒ aggiunge il direttore d’orchestra Gilberto Serembe, docente al Conservatorio di Brescia ‒. Per esempio, quando mi capita di dirigere un passo tardo‒romantico, che richiede un tipico ritardando accompagnato da un allungamento del suono e da un’intensificazione del peso esecutivo, mi trovo a dover spiegare ciò che fino a poco tempo fa era sottinteso. Non bastano tecnica agguerrita e perfetta decodificazione grammaticale: c’è bisogno di un vasto mondo ideale e interiore. Senza la condivisione di questo “cuore” intimo, segreto e necessario, tutto diventa impossibile, esattamente come se si dovesse spiegare l’esistenza di Dio. Ogni vera esecuzione non può prescindere da questa stratificazione di letture, incontri, visioni, rapporti umani, religiosità, natura, unione di arte e scienza, ragione e sentimento. Una fame di vita. I grandi possiedono queste intime risorse. Senza di esse ci si limita a suonare le note».

Enrico Raggi

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