Genova INTERVISTA A MARCO BEASLEY

| 1 aprile 2006

VOCE DE’ NOSTRI GIORNI

Fenomeno della musica antica, uno dei pochi che fa discutere e litigare, che innamora di sé o provoca fastidio. Incide per la raffinatissima etichetta belga Cypres (prima lavorava con la miracolosa francese Alpha). Attivissimo in Italia e all’estero, in decine e decine di Festivals. Lo hanno definito in molti modi: moderno crooner, rapper di fine Seicento, minstrel singer, Branduardi pelato. Pensavano di offenderlo (ma erano solamente segni di impaurita sorpresa). Involontariamente gli hanno fatto dei complimenti. L’arte di Beasley è infatti regno della suprema semplicità: sa donarsi completamente agli ascoltatori (come solo i grandi riescono a fare); abbandona ogni riserva, ogni prudenza, ogni appiglio; recita con il corpo intero, con ogni fibra, spreme anche l’ultimo residuo d’energia, senza sapere dove approderà. “Dalla sua rete di seta non ne sono uscito indenne”, ha confidato un critico francese. E’ lui, Marco Beasley: occhi e voce di velluto. Con il suo canto ipnotizza, incanta, cattura. Finalmente capisci le parole, anche l’ultima virgola. Ma allora si può! Cantare e commuovere chi hai di fronte, far piangere e sorridere delle immagini poetiche che il testo veicola. Beasley ti fa gustare la dolcezza e l’ironia dei versi, aggiungendo bellezza (vocale) a bellezza (poetica). Il suo canto non è astratto, ma fatto di nomi, di persone, di carne. La sua voce non risuonerà forte in maschera, come certi trattati richiedono; eppure coinvolge, luccica, ruggisce, colloquia, è carnale e incantatoria, oscilla tra melliflue moine da pretino e grida da mercato del pesce napoletano. Note come bistecche. Vita ovunque: caravaggesca, eccessiva, catalizzatrice di energia e di emozioni. Beasley si espone in prima persona, si confronta con i maestri sul loro terreno: compone stanze poetiche, improvvisa abbellimenti e dinamiche, ricrea vocalmente più personaggi (nello stesso brano), accompagna ogni disco con un breve racconto. Sono in molti a confessarlo: da tempo non ci capitava di riascoltare un disco due o tre volte di seguito, come ci ha costretti a fare Marco Beasley. Messaggi sonori nella bottiglia, che fanno godere e discutere. Il Giornale del Garda lo ha scovato nella sua Genova. 

La tua voce possiede timbro cristallino, dizione perfetta, accenti realistici ed emozionanti. Ma per ottenere l’intellegibilità del testo bisogna per forza sacrificare suoni corposi, rotondi, vibranti, penetranti? E’ un connubio davvero impossibile?

E’ difficile intendersi sul significato dei quattro aggettivi che attribuisci al suono. Posso però rilevare una contraddizione tra corposi, rotondi e penetranti. Per quanto riguarda il vibranti lo riterrei positivo se attribuito all’emozione che può produrre una voce umana ma fuori bersaglio se riferito tecnicamente al suono. Il vibrato nel Seicento è considerato un abbellimento – alla stregua di un trillo – e non un elemento costituente del suono. Non conosco esempi di suoni corposi che mi diano quella comprensione del testo che è condizione prioritaria e che invece viene quasi sempre relegata a ruolo subalterno. Come Monteverdi ci ricorda, è la musica a dover servire la parola e non viceversa.
Le antiche frottole e le moderne canzoni, con la naturalezza della tua voce, diventano parenti nemmeno troppo lontani. Era un obiettivo prefissato? E’ un pregio o un limite?
E’ un pregio se all’ascolto emozionano e risultano gradevoli. Un limite, se ciò non accade. Sono anni che cerco un “gesto” vocale che si accosti con equilibrio a quello degli strumenti destinati a tale musica. Credo fermamente che la sonorità lirica o “belcantistica” non sia veramente compatibile dinamicamente e, soprattutto, stilisticamente alla letteratura rinascimentale e barocca.
Quanto coraggio ci vuole per scrivere versi poetici e libretti operistici da accostare a Guarini, Tasso, Chiabrera? Perché nessuno oggi osa più cimentarsi in simili sfide? E’ semplice pigrizia o c’è dell’altro?
Non è una questione di coraggio, è una necessità pratica ed espressiva. Io amo la poesia e mi accosto con ammirazione a quei poeti che sanno giungere e parlare al cuore. A volte integro testi composti, nell’originale, da poche strofe, ma solo là dove tale integrazione non sia una violenza. Ritengo che il frammentare sempre più le competenze fino a creare una schiera di tecnici iperspecializzati che non comunicano più fra loro non faccia gli interessi della musica e dell’arte in genere. Auspico quindi l’avvento di un cantante che sia anche attore e un po’ poeta; così come credo giusto e bello che uno strumentista sia anche compositore, rifuggendo dai compartimenti stagni che la cultura contemporanea ha imposto. Questa era la dimensione musicale in cui si viveva tra Cinquecento e Settecento e penso che oggi abbiamo molto da imparare da quel mondo.
Il tuo nuovo cd dedicato al Recitar Cantando si preannuncia rivoluzionario. “Voce piena e naturale” e gestualità faranno il miracolo?
Non esageriamo. Se ci si aspetta grandi movimenti dell’agogica o sovrainterpretazioni emotive, si resterà delusi. La novità sta semplicemente in questo: applichiamo ai grandi capolavori del primo Seicento una vocalità davvero serva dell’orazione e restituiamo al basso continuo, conservandone la struttura originale, l’enorme potenzialità inventiva di cui i trattati parlano e che oggi nessuno applica e sviluppa. Tutto con piacere, fantasia e rispetto.
Tra i suoi cantanti preferiti c’è Di Giacomo del “Banco del Mutuo Soccorso” non Alfredo Kraus, c’è Giorgio Gaber non Nigel Rogers. L’emozione, la comunicatività, l’immediatezza sono più importanti della tecnica? Perché queste scelte provocatorie?
Non c’è alcuna provocazione, mi creda. Francesco Di Giacomo e Giorgio Gaber li ho sempre amati proprio per la loro carica comunicativa. Del resto non è corretto contrapporre tecnica a emozione, comunicatività e immediatezza: la tecnica deve essere lo strumento che ci permette di comunicare in modo immediato ed emozionante, se no a che serve? Ho citato dei cantanti di musica “leggera” non perché io creda che quello sia il modo giusto di cantare la musica barocca ma perché quegli artisti hanno una relazione speciale con la musica che praticano ed amano, fatta di amore e vitalità. Penso che tutti noi musicisti colti abbiamo da imparare da queste espressioni vitali che rendono fecondo il confronto con la letteratura del passato: solo così musica lontana da noi diventa significativa, vera, diretta, emozionante. Comunque, ogni repertorio ha le proprie sonorità. Non credo ad una voce universale ma all’universalità di una voce ben calibrata al repertorio: diffidate di Beasley/Puccini come di Pavarotti/Caccini.

Di: Enrico Raggi

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