Essere gardesani
Una persona amica mi chiese di sviluppare un tema da inserire come introduzione alla tesi, da pubblicarsi, della prof. ssa Franca Gandini, deceduta di recente. La tesi fu discussa nell’anno accademico 1951/52 all’Università Cattolica di Milano. Relatore il prof. Mario Apollonio. Il titolo Cronache letterarie del Garda. Mitografia storica di un paesaggio. Avrei dovuto chiarire – così mi disse l’amico – il concetto di “gardesanità” che talvolta viene espresso in concomitanza di manifestazioni culturali, come in questa occasione in cui potrei, non tanto fare una rilettura e commento della tesi dell’amica carissima, quanto riandare col pensiero alla motivazione che la spinse a scegliere quel terreno di ricerca per il suo lavoro. La “gardesanità”, appunto.
Confesso che per me non è facile enucleare dalla parola sopraddetta il concetto. Oso comunque affrontare il compito. Penso che il concetto, che si cerca di esprimere con il termine “gardesanità”, non sia applicabile, per la sua astrattezza, a tutte le varie esperienze esistenziali di coloro che semplicemente vivono o hanno vissuto sulle sponde del nostro lago, o in prossimità di esso. Per esempio, non vuol dire che chi ha praticato, o pratica la pesca per scopi professionali o sportivi, nelle acque del nostro lago, sia animato necessariamente da quel sentimento che cerchiamo di definire con la parola “gardesanità”; ciò può avvenire se il pescatore ama esclusivamente la propria attività, ricca certo di conoscenze riguardanti la fauna lacustre. ma non è altrettanto interessato al territorio gardesano nella sua complessità.
Può verificarsi che il pescatore agisca per una motivazione meramente utilitaristica, in sé e per sé del tutto legittima, a condizione che non ricorra a metodi di pesca impropri e deleterie per la popolazione ittica, come succedeva, non di rado, nel passato, quando non v’era alcun controllo. Si sa che esiste il grave problema dell’impoverimento della fauna del lago, ma non sembra che questa situazione stimoli l’attenzione e l’intervento di associazioni di pescatori portando l’argomento, non certo secondario, all’attenzione dell’opinione pubblica e degli Amministratori pubblici, poco solerti ad affrontarlo seriamente. Un ripopolamento delle acque lacustri avrebbe una notevole conseguenza economica positiva, ma dubito che l’iniziativa sia mossa da un sentimento di “gardesanità” che concerne l’appartenenza a un territorio al quale ci si sente legati per amore. Questo sentimento vive perché ci si sente coinvolti nella storia e bellezza del luogo natio, inserito in una regione geograficamente inglobante il proprio paese.
Mi ricordo che durante una lezione il mio professore di geografia, Giuseppe Nangeroni, docente all’Università Cattolica di Milano, a lungo Presidente del Comitato scientifico del Club Alpino Italiano, illustre glaciologo, studioso del quaternario del sistema alpino e prealpino, un giorno, durante una sua lezione, ci disse: “Ragazzi, mi raccomando, ricordatevi che la geografia comincia quando uscite dalla porta della vostra casa!”. Questa frase, nella sua apparente modestia, reca in sé significati diversi, collegati a importanti settori di ricerca; essa mi è sempre rimasta nella mente portandomi ad amare il territorio in cui vivo, a conoscerlo nella sua peculiarità, come se in esso si raccogliesse una cosmica verità, al di là di finalità della vita strettamente personale che poco hanno a che fare con il nostro habitat nelle sue caratteristiche fisiche, antropico–esistenziali, storiche ed estetiche.
“Gardesanità” è un sostantivo la cui astrattezza si collega alla singolarità effettiva e concreta dell’amore per la propria terra cui ci sentiamo legati, immersi consapevolmente nel flusso della storia e attratti da visioni di bellezza, che, convinti, ci appartengono come bene comune.
“Gardesanità”, nella sua significanza astratta, non esiste nella realtà effettuale, come non esiste, nella concretezza del vivere, la “bontà”: esiste l’azione buona. L’essere concreto della “gardesanità” è in noi quale componente della nostra storia personale. Avviene un fenomeno straordinario. Con le nostre parole, frutto di ricerche o di esperienze, raccontiamo la storia della terra in cui viviamo. Spetta a noi vedere (un vedere che è creare) la bellezza di campi, colline, montagne, acque azzurre; contempliamo e cantiamo questa bellezza con una “lauda” interiore non scritta. È una bellezza composita, fatta di paesaggi e di uomini portatori di una loro storia, i quali (molti di loro sono scomparsi) fanno un tutt’uno con la natura in cui pacificamente vivono (o vivevano), pescando, lavorando i campi, veleggiando o guidando battelli sul lago, animando, con svariate attività, villaggi e paesi sulle rive o lungo i pendii di monti specchiantisi nelle acque, o circondati dal verde di campi e boschi, tra rogge e torrenti. Dico questo in quanto animato dalla dolcezza del ricordo, mista a tristezza. Perché, ripercorrendo velocemente con la memoria il mio passato (sessant’anni, dalla matura giovinezza ad oggi, 2013) sento prevalere l’amarezza sulla dolcezza del ricordo?
Gli anni della mia maturità furono quelli della ricostruzione, dopo la guerra. Grandi cose furono fatte, tra cui il miglioramento economico e culturale di ampi strati sociali; fu costruito il cosiddetto welfare. Finalmente sembrava che stesse per realizzarsi, una volta per sempre, il “Piano Beveridge”, redatto in Inghilterra nel 1942, che prevedeva riforme radicali, senza alcuna rivoluzione violenta, come l’attivazione della solidarietà tra le classi e la tutela dei diritti e i bisogni dei lavoratori e dei ceti più deboli. Ma con il formarsi del benessere, in vasti gruppi sociali (almeno nelle regioni del Nord e del Centro Italia), crebbe la corsa alla ricchezza, alla produzione sfrenata e anarchica, al consumo, sollecitato dai media affollati di pubblicità. Si formarono paradisi fiscali. Il “lavoro” continuò ad essere considerato mera merce di scambio. La concezione individualistica trionfò alla faccia della “solidarietà” che già si trovava nel principio di “fraternité” proclamato dalla Rivoluzione borghese/liberale del 1789. Le cattedrali del consumo e del lusso sostituirono quelle ove si cantavano le domenicali lodi al Signore; nuove cattedrali che ospitano folle anonime, appartenenti a una società divenuta malata di autismo.
Che c’entra tutto questo che sto scrivendo con il concetto di “gardesanità”? C’entra, c’entra, eccome! Pure il terreno, che attornia il nostro paese, venne considerato un bene da consumare, un oggetto, misurabile in metri quadrati, e valutato secondo la legge di mercato che stabilisce il prezzo secondo il rapporto fra il quantum dell’offerta e quello della domanda. In quegli anni di crescita economica s’accrebbe a dismisura la edificazione di case, soprattutto di ville e condomini, per cui si verificò l’assurdo che piani regolatori, anziché regolare l’uso del territorio, diventarono strumenti periodicamente sottoposti a varianti d’uso in funzione di richieste di edificabilità. La speculazione finanziaria divenne la causa del consumo del territorio. L’opinione pubblica fu per anni convinta che l’attività edilizia sarebbe stata il motore dell’economia gardesana, anche se noi, piccolo gruppo di raziocinanti, cercavamo di far udire pubblicamente, con cocciuta perseveranza, la nostra voce di profeti di sventure, naturalmente inascoltati. Ci sentivamo accerchiati da bande organizzate di cementieri. Stavamo entro le nostre povere trincee di ambientalisti, mentre fuori, apparentemente impassibili e poco loquaci di problemi politici, ma convinti della giusta strategia dei Signori della “guerra antiambientalista”, la maggioranza dei cittadini conducevano la loro vita normale, formanti le “truppe cammellate” del cosiddetto “partito dei cementieri”, la cui ideologia si era infiltrata, più o meno, nei vari partiti. In questa situazione sociale è predominante l’ideologia della ricchezza, del consumo di oggetti e di territorio come condizione inevitabile di una economia che non può accettare limiti allo sviluppo, il quale, concepito come illimitato, è garanzia di profitti ingenti. La logica, che fa del profitto individuale lo scopo della società, ci aliena dal principio costituzionale (e cristiano) del doveroso perseguimento del bene comune. Di conseguenza questa cultura non è affatto appropriata a coesistere con il sentimento di “gardesanità”, cioè di “amore per il proprio paese”, perché l’amore presuppone la conoscenza e il rispetto dei reali e veri bisogni del luogo amato, e la disposizione ad esaudirli. Coloro che parlavano (deboli numericamente) del paesaggio da difendere nella sua bellezza e dei suoi valori storici e artistici, sostenevano che l’economia del Garda, e quindi della nostra Città, traeva alimento dal turismo cui era connessa l’agricoltura, per due motivi: 1o in quanto fornitrice di prodotti gastronomici tipici; 2o perché garante della conservazione del paesaggio in quanto contribuisce a caratterizzarlo. Ma le loro parole erano quelle di “poetici” intellettuali incapaci di capire che il “mattone” era fonte di ricchezza per tutti, sicché secondo il pensiero cementizio svedesi, danesi, tedeschi, inglesi etc. etc. sarebbero venuti al Gardasee per ammirare ville con piscina e condomini, abitati per pochi giorno all’anno o vuoti, come accade soprattutto oggi dopo lo scoppio della bolla edilizia. Osservavamo allora, e osserviamo tuttora, che nei più agisce un sentimento di appartenenza alla comunità definibile meglio con il termine di paesanità che non oltrepassa i confini dell’allegra cena di gruppo, composto da quelli della classe o dell’arma o dei fedeli parrocchiani. Una paesanità fatta di giostre, banchetti di torrone, zucchero filato, caramelle variopinte, liquirizie, palloncini, trombette e fuochi d’artificio, in occasione della festa del Patrono, trascurando o tralasciando riti popolari, in onore del Santo, che un tempo erano praticati (penso all’usanza nel mio paese di raffigurare il furto delle reliquie dei tre Santi). Queste feste paesane sono una buona, simpatica usanza, non c’è dubbio, ma non possono da sole essere l’asse portante di un turismo inteso come industria principale di una regione che ha fama internazionale. Il turismo si sostiene, o si dovrebbe sostenere, su valori quali il paesaggio, i beni storici e artistici, gli eventi di interesse culturale quali esposizioni, mostre, convegni, spettacoli teatrali, opere, concerti d’alto livello. Se si bada bene il programma, che si attaglia alla mia Città (Desenzano), diventa un paradigma applicabile alla maggior parte dei Comuni d’Italia, da cui può partire una rinascita che ci porti fuori dalla palude economica e culturale in cui stiamo vivendo, tuttora dipendenti, quasi drogati dai Dispensari del Lusso e dell’Opulenza che circondano molte nostre città e paesi.
Spero di aver chiarito quale sia il significato che intendo dare alla parola “gardesanità”, vissuta nella concretezza della vita di ciascuno che effettivamente ami il proprio paese.
Dedico questa nota, scritta come introduzione alla tesi che fu elaboratala dalla prof.ssa Franca Gandini, alla stessa autrice della tesi.
Franca Gandini fu mia cara amica fin dall’epoca degli studi universitari alla Cattolica di Milano. Lei mi precedeva di due anni nel percorso accademico. Ci vedevamo poco durante la frequenza alle lezioni perché lei frequentava i corsi di “lettere moderne” ed io quelli di “lettere classiche”, aventi piani di studio diversi. Ci trovavamo talvolta sul treno, la sera, nello stesso scompartimento, insieme con altri studenti desenzanesi che, terminate le lezioni, tornavano a casa. Dopo un breve periodo insieme come colleghi alla Scuola Media Catullo di Desenzano, le nostre “carriere” si separarono, lei insegnante al Liceo Bagatta, io all’Istituto Tecnico Luigi Bazoli. Franca fu stretta amica di mia moglie Edoarda (Dada) Pedrazzini, sin dalla prima fanciullezza quando le loro famiglie abitavano lo stesso condominio di via Gherla, in Capolaterra. Gli studi universitari le separarono, perché Dada frequentò l’Università Bocconi, laureandosi in lingua e letteratura inglese. Poi Dada insegnò al Bazoli. L’amicizia comunque continuò fino a quando andammo in pensione, e oltre. Ci si trovava non di rado in sereni, lieti convivi perché Franca aveva la passione della cucina e ci invitava offrendoci menu sempre sofisticati. I convitati erano gli amici coniugi Campostrini, Edoardo e Lina, ambedue ex-insegnanti di Lettere al Liceo Bagatta, il prof. Ider, già direttore didattico in pensione, il dott. Tentoni con sua moglie, il prof. Mario Marcolini, insigne cultore di lingue classiche al Bagatta e glottologo di ampie e raffinate conoscenze, anche al di fuori del già di per sé vasto settore delle lingue indo-europee, e noi.
I convivi erano ravvivati da discorsi faceti che s’alternavano con argomenti seri, come si usa fra amici che “con–vivono”. Quando Franca fu costretta a stare seduta perché le gambe non la sorreggevano più, e dovette essere aiutata da una badante, Dada ed io andavamo periodicamente a trovarla; e allora i ricordi della vita riaffioravano, cercando di tenere ancora alti e vigili gli spiriti, nonostante la malinconia, giacente nel profondo degli animi, trapelasse, talvolta incontrollata, con un sospiro o una fuggevole frase di rassegnazione. Quando Dada morì, all’età di 77 anni, nel 2009, mi recavo da Franca, di tempo in tempo. Cercavamo di mitigare il dolore con vari discorsi. Franca, quando si parlava della sua cara amica fisicamente scomparsa, versava lacrime. Si parlava allora del destino dell’anima. Così si leniva la tristezza profonda per gli abbandoni improvvisi di persone a noi care. Franca morì due anni dopo. Forse, come risultato delle nostre meditazioni sui sempiterni, sulla sua lapide, v’è incisa una frase: “ E non vi sarà mai un tempo in cui tutti noi cesseremo di esistere.”
18.05.’13 Simone Saglia
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