Desenzano del Garda: DESENZANEIDE incipit

| 1 aprile 1993
Bagoda cartello 150 def

Io è un altro.

Son sempre stato un desenzanese a metà, come sono bresciano a metà. Sono cioè un esule psicanalitico, con antenati mantovani e austrungarici, toscani e ravennati. La metà che avrebbe potuto coincidere con il luogo di permanenza è sempre rimasta misteriosamente nascosta al momento del contatto col luogo sorgivo. Sicchè ero desenzanese a Milano e milanese a Desenzano.

Ora sono un desenzanese che abita a Ronco di Gussago e la lontananza mi consente di fare un atto di fede sulle mie presunte radici e di immaginare l’odore di pesce e d’alga secca e di pensarmi a bagnomaria come un cagnotto appeso a una lenza lontana. Non ci sono nemmeno nato, a Desenzano, nonostante lo avessi desiderato con il massimo impegno retrospettivo e nonostante i miei si fossero conosciuti lì, al liceo Bagatta, papà della città- il nonno aveva acquistato villa Milena per le anemie perniciose della madre- e la mamma mantovana, ma non del tutto visto che l’albero porta ad Iterlau, un paese che non so esattamente dove sia -sulle rive di un lago, si dice per certo-. Deve aver cambiato nome, quel posto, ed ora è introvabile, sugli atlanti moderni. Ricordo di averne visto il toponimo su un vechio libro, ma la parola era divisa a metà dal confine che corre l’Austria e l’Ungheria. Allora il caso mi ha fatto nascere a Rovereto, un paese nel quale non ho mai messo piede e che era sconosciuto anche ai miei genitori, ma si dichiarava ottimo per la presenza di un grande ostetrico. Desenzano è luogo di tombe basilari, d’affetti intensi e di percezioni definitive. E qui sta la saldatura. La mia scrittura nasce sicuramente in riva, ai piedi del monumento con aquila che torce il capo, piantandosi il rostro nella livrea di pietra. Frequentavo a Brescia la seconda elementare con grembiale blu e doppia asta bianca, ma il quattro novembre arrivai rasato ai piedi della statua colla fanfara che sonava note tristi barrendo la propria contrizione a tutti i militi ignoti dell’universo; e c’era attorno l’odore dei cipressi bagnati e degli allori e dei labari antitarma; e veniva dalle case un irriverente libeccio di brasato, gli alberi si riflettevano naturalmente negli ottoni; vedevo tutt’attorno i cadaveri bruni dei soldati uscire dagli angoli che sentivano di piscio di gatto e di bacche. Quei cadaveri avevano la faccia dei miei morti. Ecco, dicevo, un giorno dovrai scriverle queste cose e cercavo di spingere la lingua contro il palato per comprimermi il cervello e far sì che le parole m’uscissero subito per estrusione. A vent’anni ho scritto un assurdo poema desenzanese sulle bottiglie di candeggina che galleggiano nel lago.La condanna -peraltro banale- d’essere eterni nella plastica, nella mancanza di biodegradabilità che rendeva invece immortali i gatti, i militi ignoti e le bacche. C’era un posto che si chiamava Campoverde, dietro le Rive. Lì incontrai l’uomo-cavallo. Era un giovanotto che nitriva in forma di centauro, si malmenava la culatta destra sgrullottandosi tutto in un fremito con gli occhi che andavano in su e in giù perchè non avevano mica oliato il meccanismo che li fa muovere in sincronia, nelle bambole; dopodichè correva saettando, più veloce di se stesso e nel movimento gli cresceva la criniera. Scaduti i termini naturali, ho sempre rifiutato di vedere il laghetto di Bagoda in cui le radici marciscono e le silfidi di terza media s’accosciano per farsi bocciare ancora; e voglio che sia così per l’eternità perchè, da lontano l’odore di torba -e d’olio solare con cui s’impomatavano la pelle e il sentore di detersivi e di topi- è più intenso. Raccontavano di una pozza d’acqua a costa del viadotto in cui le tette fiorivano sulle ondine lente color mota; eran le tette delle quindicenni che sguinciavano fuori per esuberanza dai reggiseni elastici nel finto bagno proibito, ma noi di anni ne avevamo tredici sicchè eravamo fuori- anagrafe, non avevamo la cittadinanza nel paese delle tette con le sue acque fonde che se ci cadevi morivi, in quell’oscurità conica piena d’erbe pallide: le nostre tredicenni non le tiravano mica fuori per cofermare ritualmente il mistero. Allora immaginavamo e declamavamoo: oh tette del laghetto di Bagoda dal nome lussurioso e misto e orientale e gutturale e pinocchiesco (continua)

Maurizio Bernardelli Curuz

Tags: , ,

Commenti

Salvato in: Storia locale
×