CD PIANOVOX incisi da JAY GOTTLIEB

| 1 ottobre 2001

Pianovox è una splendida collana discografica francese. Creata da un iraniano sfuggito al regime di Komehini ed emigrato a Parigi: poteva mandare tutti a quel paese e pensare solo ai fatti suoi; ha invece generato un pezzo di cultura, un momento di storia e di civiltà, immagini di umanità in dialogo. 

Pianovox presenta solo pagine pianistiche, con una sezione interamente dedicata al ‘900. Eppure basta per disegnare un profilo avvincente del secolo appena trascorso. Mi sono concentrato sulle registrazioni del pianista Jay Gottlieb, americano residente a Parigi che incide per Pianovox, gran virtuoso e musicista di razza (i pianisti che collaborano con l’etichetta sono una ventina in tutto). Gottlieb è poeta delicatissimo e sensibile: ovunque rispetta la variegata e fragile carica emotiva delle composizioni di Glass. (Rimane comunque un grande dubbio: Glass ci è o ci fa? E’ sincero oppure è un furbo che insegue il mercato, che scrive facile, con mezzi tonali, solo per vendere? Ma questo è tutto un altro discorso…). Nel cd inciso da Gottlieb predomina una tenerezza assoluta, uno struggimento indicibile, dosatissimi passaggi dal sussurro al canto di vittoria (The Olympian), attraverso momenti interpretativi di convinzione assoluta. Le Methamorphosis si modificano lentamente, con sottile pudore, lasciando vibrare gli armonici, dialogando internamente e da brano a brano. La registrazione è limpidissima, di cristallo, realizzata all’Espace de projection dell’Ircam, con uno Steinway luminosissimo e morbido. Il cd di JOHN CAGE (Music for non-preparated piano, PIA 533) è una convincente ricognizione sulla vitalità che la musica pianistica ha conservato in America per l’intero ‘900. Comporre per pianoforte solo, fu un’esperienza “nuova e rinfrescante”, come ebbe a scrivere lo stesso Cage, dopo le numerose e intense esperienze dedicate al pianoforte preparato. Prevale spesso un’atmosfera contemplativa (soprattutto in Dream e In a Landscape, brani del 1948), improntata a totale semplicità, amore per le calme risonanze, per sonorità giavanesi, colori diafani, pentatonia, completa lontananza da concezioni sviluppative europee. Il primo nome che salta in mente ascoltando queste pagine cageane è naturalmente quello di Satie. Spesso siamo ad un passo dal silenzio, alle soglie del celeberrimo 4’33”, come accade nei Seven Haiku, del ’52, semplici respiri musicali, sbuffi di vapore, frammenti di bellezza intravisti per un attimo e racchiusi in una bottiglia di vetro. Siamo nella condizione del bambino che – ostinatamente, contro ogni logica – innaffia l’albero rinsecchito del film Il sacrificio di Andreij Tarkovskij: e dopo anni l’albero riprende a vivere. Siamo su una mongolfiera che sta precipitando e dobbiamo gettare via tutta la zavorra, per salvarci, per sopravvivere. Anche in questa esemplare registrazione, Gottlieb si segnala per il controllo millimetrico del tocco, per l’intima poesia che riesce a restituirci, per l’assoluta mancanza di forzature d’ogni genere (un accento fuori luogo distruggerebbe questa musica fatta d’aria e di sole). I più maligni hanno definito JOHN ADAMS “un cinquantenne che scrive musica per adolescenti”: però hanno colto nel segno. La sua musica, infatti – finalmente – si avvicina al grande pubblico, è conosciuta, amata, divide gli ascoltatori, mescola jazz, Puccini e il rock and roll, “Come già fece Bernstein in West Side Story”, si giustifica John Adams. Si può non essere d’accordo con lui, criticarlo perché non sa modulare in maniera enarmonica, muovergli appunti formali. Però Adams ha compiuto un cammino di pace fra compositore contemporaneo e pubblico, un cammino che da decenni era ormai interrotto. La restrizione cosciente del materiale impiegato – tipica dello stile Minimale di cui Adams è brillante protagonista – può facilmente essere interpretata come risposta estrema all’incomprensibile complessità della “Nuova Musica”. Naturalmente tale scelta può sembrare nulla più che un banale ripiego, una comoda scappatoia. Ciò che importa è che la musica prodotta dai Minimalisti possiede almeno due requisiti di artisticità: in primo luogo, è sopravvissuta, dalla prima metà degli anni ’60 ad oggi, a dispetto dei numerosi cambi di direzione; in secondo luogo, si è sviluppata e si è evoluta. Non è poco, soprattutto al termine del ‘900, dove tutto viene bruciato e svanisce nell’arco di pochi anni. Il minimalismo si pone anche come coscienza filosofica, piuttosto che come sistema; cioè, costringe l’ascoltatore ad una attenzione quasi orientale del suono che si modifica leggermente e lentamente; privilegia posizioni estetiche più mistiche che razionali. Gottlieb ha inciso due brani di JOHN ADAMS (PIA 510), composizioni che richiedono un sovrano controllo dinamico e formale: occorre attraversare vari stadi di luminosità, tracciare un arco sonoro che restituisca all’ascoltatore (retrospettivamente) la struttura di costruzioni a canone; devi saper trasformare il pianoforte in un gioco percussivo di pietre di giada, con diversità di spessore e di grana timbrica. Gottlieb riesce in simile ardimentosa impresa, aiutato da una registrazione immediata e diretta. Un solo dettaglio, a dimostrazione del lavoro certosino condotto dal nostro pianista: in Phrygian Gates, sono continui i cambi di modo, dal lidio al frigio e viceversa, con rimescolanze, sezioni spurie, momenti mai chiaramente definibili (non solo armonicamente, ma pure applicandovi analisi di modi rinascimentali): Gottlieb gonfia e prepara la tensione ad ogni nuova mutazione modale, in una lettura che diviene analisi e proposta personale, accentuando il carattere di open-work che queste musiche conservano al massimo grado. L’ascoltatore, in tale maniera, coglie la potenza della costruzione architettonica e gode pure del singolo dettaglio di cui è costituito un nuovo blocco. Nel cd dedicato a CHARLES IVES (PIA 503) Gottlieb dimostra d’essere pianista strepitoso (una virtuosità manuale e mentale, la sua): la Sonata n.2 Concord, opera monumentale, d’oltre 40 minuti, al suo interno è un universo composito, magmatico, imprevedibile, plasmato con grandiosità e magniloquenza, che esplode in continuazione (1° tempo); costituita di poliritmie, citazionismi, contrappunti tematici (2° tempo); di languidezze e panteismi (3° e 4° movimento). Occorrono dita d’acciaio ma, soprattutto, capacità di ricondurre il fiume sonoro entro un percorso unitario e convincente. Gottlieb vi riesce, anche in virtù del suo cosmopolitismo culturale ed estetico. Rivive intatto il mito dell’onnipotenza del pianoforte: Gottlieb ci restituisce la vertigine che si prova di fronte alla vastità del cosmo, di fronte al Mistero della vita.

Di: Enrico Raggi

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