Marco Gemmani

| 2 ottobre 2023
Cappella Marciana 5

”Il canto è la più alta espressione del cuore umano”. Questa affermazione del sacerdote milanese Luigi Giussani  mi ha segnato, mi ha cambiato,  mi accompagna.

Quando si canta, tutto di noi è coinvolto nel rapporto, concreto e al contempo trascendente, con la realtà. Cantando intrecciamo con il mondo una relazione che ci realizza pienamente. Nulla è così immediato come il canto per esprimere la propria tensione a Dio. Lo sto verificando da quasi cinquant’anni: davvero il canto è la più alta espressione del cuore umano. Pochi hanno il coraggio di dirlo». Marco Gemmani dal 2000 dirige la Cappella di San Marco di Venezia, insieme alla Cappella Sistina uno degli ensemble corali più prestigiosi al mondo. Bambino prodigio, a quattro anni suona il pianoforte, a sette studia violino, a quindici dirige il suo primo concerto; diplomato in musica e direzione corale, violino, composizione; musicologo, docente al Conservatorio di Venezia, tra i fondatori dell’orchestra Accademia Bizantina (vi suona per quindici anni, in giro per il mondo, per poi dedicarsi alla voce e al canto).

«Ho avuto la grande fortuna di un padre affamato di musica», dice Gemmani, «questa sua passione mi ha influenzato in profondità e mi ha permesso di capire quale fosse la mia strada. La musica richiede dedizione continua e ciò, per un bambino o un adolescente, ha una capacità formativa eccezionale: non sviluppa solo i muscoli o il carattere, ma educa la persona a riconoscere la verità di sé».
«Rilevo lo stretto legame di canto e liturgia, nonostante in molti abbiano cercato di separarli,» prosegue Gemmani. «Il canto rispecchia una certa posizione nei confronti del mondo intero. È un gesto integrale: culturale, caritativo e missionario. Nessuna banalità, nessun sentimentalismo, nessuna forzatura. Adesione, invece, al Mistero, al destino, alla Chiesa, nel solco di una tradizione che ci indirizza verso il compimento di noi stessi. Faccio un solo esempio. Laudi filippine: “O cor soave”: le entrate a catena sulle parole “ma da lo stral” indicano l’effusione dello Spirito, e più volte la “r” (la consonante della carne e del corpo) vibra nell’aria, quasi raffigurasse il colpo di lancia nel costato di quell’Uomo in croce. Cantare per immedesimarsi, per rivivere quei fatti, per fare un’esperienza reale, per coincidere con ciò che si canta».
Quali brani polifonici ama di più?
«Difficile scegliere. Qui vi parlerei dei Responsori di De Victoria. Hanno testi altamente drammatici, in cui “il tremendo e il pietoso, ingiustizia e misericordia, stanno insieme”. La stesura di Tomàs Luis è intensa e avvincente, tanto che colpì subito i musicisti che un secolo fa riscoprivano la musica polifonica rinascimentale. Questa musica è sobria ed essenziale e, insieme, profonda e tragica. Rispecchia la Spagna di Santa Teresa d’Avila e di San Giovanni della Croce. L’immediatezza che vi si respira dimostra un rapporto intimo e totale con il mistero della morte del Salvatore».
Ama il «Caligaverunt»?
«È l’ultimo Responsorio del Venerdì Santo. Era eseguito nel buio totale della notte, al termine di una lunga veglia. Dopo la sua esecuzione seguiva un lungo silenzio, in cui ci si stendeva a terra sul nudo pavimento. De Victoria vi ha concentrato tutta la sua esperienza di fede, rendendola totalmente trasparente al mistero del Sacrificio del Salvatore. Non si può ascoltarlo e rimanere impassibili. Io l’ho sentito per la prima volta a 12 anni, ma ne ho capito il valore molto più tardi. Penso alla frase “Si est dolor”, con i soprani in una tessitura acuta, in levare, a gridare l’intensità di quel dolore che squassa l’animo, e all’afflizione che ne segue: “sicut dolor meus”. Oppure al frammento “O vos omnes”, in cui le entrate scaglionate delle tre voci più scure, in scala ascendente, segnano i passi riluttanti di un cammino lento e silenzioso».
Perché la polifonia non stanca mai?
«Il canto a più voci è una delle forme più immediate che si possano trovare nella musica occidentale. L’unico fine della polifonia sacra è dare visibilità al Mistero; rendere apprezzabile, quasi misurabile, la Sua presenza. Il Mistero non muta la sua essenza ma compie la storia. Ci compie. La polifonia non descrive, incarna. Non appassiona, dà spessore. È tra le espressioni più tangibili della fede cristiana. “Il metodo cristiano è ripetere la parola ascoltata. Ripetere, cioè seguire. Non si può ripetere una parola venti volte senza esserne cambiati”. Questa ripetizione insistente di un elemento (si chiama imitazione), diventa un modo per penetrare in profondità. La continua reiterazione di una frase musicale può addirittura incidere sulla struttura dell’io dell’ascoltatore–cantore».
Cosa l’ha colpita di più nell’educatore citato all’inizio?
«La straordinaria originalità con cui il fondatore di CL leggeva la musica e tutto ciò che gli capitava tra le mani. Noto come la sua chiave di lettura esuli da ogni intento tecnico musicologico per trarne un messaggio educativo utile a tutti. Sono convinto che per lui un tramonto, un film, un libro, un notturno di Chopin fossero pretesti educativi per far conoscere Cristo attraverso tutto. Unum loquuntur omnia (tutta la realtà proclama una sola cosa). Quando, il 3 maggio 1991, con un mio gruppo corale tenni un concerto dedicato a Monteverdi, per i Memores riuniti a Riva del Garda, Giussani rimase sconvolto dalla potenza espressiva di quell’autore, così chiese a Pier Alberto Bertazzi di poterne approfondire la conoscenza. Devo quello che sono anche a don Giussani. Soprattutto lo devo alla educazione che lui mi ha dato, alla sua capacità di affrontare la vita in modo totalmente interessante. Musica compresa».

ENRICO RAGGI

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