BETLEMME E LA SEMPLICITà DI DIO

| 2 dicembre 2011
PRESEPE MECCANICO MANERBA

“Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”Lc, 2, 1-7

La follia d’amore di Francesco vestì di panni evangelici la gente di Greccio per mettere in scena la tenerezza di Dio. Era il 1223. Da quel primo presepio, avvolto nelle nebbie medievali, le rappresentazioni della natività attraversarono la storia della cristianità, per la gioia del cuore e degli occhi, giungendo fino alle soglie di quel groviglio di paure e incongruenze che prende il nome di post-modernità.Immagini ieratiche, come per Giotto agli Scrovegni. Politiche, come nel Botticelli dei Magi e dei Medici. Ceramiche, come in Andrea Della Robbia alla Verna. Illuminate, come nella Notte del Correggio. E come nella sua Natività, esibita nello scandalo di una Brera senza fondi né cura. Immagini veriste e violate, nella mirabile tela del Caravaggio, trafugata nel 1969 a Palermo dalla tracotanza mafiosa e mai restituita alla civiltà. L’iconografia della nascita del Cristo, con il simbolismo erudito dei magi, dei doni, degli animali, delle architetture in rovina e con il significato didascalico dell’immenso
che si fa piccolo, ha avocato a sé secoli di sguardi e di contemplazione. Ispirando un crescendo di magnificenza che nella Napoli borbonica raggiunse un apice di sfarzo dal costo insostenibile, tale da costringere all’espatrio statuine e tradizioni alla volta della Spagna, al seguito della corte di Carlo III . E poi i presepi intagliati della Val di Fiemme, i gessi della Catalogna, i santons di Provenza, la carta pesta di Puglia, i coralli e la madreperla di Sicilia parlano di una devozione che si fa meraviglia, scenografia, spettacolo, sconfinando nella dimensione del profano e del folklore. Ma come non ritagliare un angolo di attenzione ai presepi casalinghi? Sghembi, filologicamente scorretti, con la carta da pacco a far da monte e l’alluminio di cucina come lago. Le stelle stampate sulla carta cobalto stanno a sfondo di un paesaggio surreale, dove la prospettiva è una tecnica sconosciuta e l’altezza variabile dei pastori e dei loro armenti, dei pozzi, delle case così come delle fronde si fa beffa delle elementari regole della proporzione. Il presepio di casa è come un disegno di bimbo. La realtà si fa evanescente e la razionalità è sconfitta da una visuale abbassata e priva di artificio. In questo territorio illeso dalla serialità della produzione di fabbrica, dal gusto imposto dal consumo di massa, dal malsano anelito a una perfezione agognata e più che mai irraggiungibile, in questo paesaggio di caprette zoppe e di pastorelli monchi dall’uso indelicato dei bambini, Dio pone la sua casa terrena. Non importa se la stella cometa penzola posticcia sulla capanna, come un ciuffo irriverente sulla fronte. O se le luci a intermittenza incastrano la sacra rappresentazione in un palcoscenico d’avanspettacolo. Ciò che conta è l’aroma acre e umidiccio del muschio, raccolto a più mani nella vicina boscaglia. E’ la colla stesa sulle assicelle della capanna. E’ il refe che fa volare gli angeli dalle trombette d’oro e dai cartigli vergati da un latino improbabile. Ciò che conta è il fare insieme, assemblando i vecchi pezzi con qualche recente acquisto, in un divenire di migliorie che narra l’inesorabile avvicendarsi degli anni. E’ nella storia di ogni famiglia che Gesù viene al mondo. Nella minuscola Betlemme – in ebraico “casa del pane” – si compie il rito ancestrale del parto che è istinto, dolore, lacerazione e liberazione. Tra le rocce dell’amore, la madre e il padre nascono con il loro figlio a vita nuova, testimoni del passato e precursori del futuro. E’ il Dio delle piccole cose, della quotidianità, della semplicità che viene adagiato da Maria nella mangiatoia. Tutto il resto è vanità di plastica.

Anna Dolci

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