Desenzano d/Garda (Bs) Piccolo mondo scomparso

| 1 settembre 2008
Il porto - Desenzano antica SOLITRO

Il decennio immediatamente successivo alla guerra, quello dal 1945 al 1955, vede l’ultima stagione di attività delle numerose sartine di paese, di quartiere in città, che tenevano il loro laboratorio in cucina o in una piccola stanza vicina.

In questo modo tenevano d’occhio l’andamento familiare lavorando al vestito in opera. Avevano imparato l’arte prima della guerra e dopo gli stenti del conflitto ricevevano negli anni susseguenti ordinazioni abbastanza regolari. Occasioni di lavoro erano gli abiti nuovi che le famiglie usavano approntare per Pasqua, le prime comunioni di primavera, i matrimoni di maggio e settembre, gli abiti invernali di qualche impiegata o impiegato, i vestiti per gli studenti, qualche modello sfizioso per cerimonia o festa. La clientela era costituita da vicini di casa o da persone che si erano passati parola sulla bravura di questa o quella sartina. In genere non avevano dipendenti, facevano tutto da sole o erano aiutate dalla madre o dalla sorella. Periodi di scarsa attività si alternavano a giornate faticose e lunghe durante le quali occorreva terminare un data consegna. Allora erano ore passate curve sulla macchina da cucire a pedale o a manovella, ma più a lungo si stava sulla stoffa con ago e ditale, perché bisognava fare al meglio le rifiniture a mano: orli, coprifili, asole dei bottoni. Mai i punti erano dati con sufficiente cura: infatti dovevano essere piccoli, regolari, invisibili nella parte esterna della stoffa, uniformi nell’interno, non troppo stretti né troppo larghi. Proprio in questo ambiente era nato ed era stato usato spesso il detto: fare e disfare è tutto un lavorare. Erano state le insegnanti degli anni giovanili a inculcare nelle sarte la cura del cucito, facendo quasi diventare un’ossessione la precisione di ogni punto, che a opera finita doveva apparire parte di un tutto ordinato e gradevole alla vista. Tra le sartine vi erano le specializzate in abiti normali e quelle “ su bianco” cioè le camiciaie, lavoro che chiedeva maggiore attenzione nel taglio e nel cucito, data la leggerezza e delicatezza, in genere, dei tessuti. Vi erano poi le ricamatrici di corredo, interpellate per la preparazione della ‘dote’ delle spose. Anche a loro il lavoro non mancava, perché era usanza che pure la sposa più povera facesse orlare e ricamare le iniziali su almeno due coppie di lenzuola o di federe, ma per le spose benestanti i ricami erano richiesti per più capi di biancheria da tavola o da notte. Non mancavano nelle vicinanze le modiste, che facevano le delicate acconciature per le prime comunioni o per gli abiti da matrimonio; a Desenzano ce n’erano due su per il vicolo del castello. Approntavano anche i guanti di pizzo bianchi, i veli, i cappelli da uomo. Due erano i sarti per uomo, in strade un po’ più nuove e larghe. A volte si vedevano sull’uscio o alla finestra del loro laboratorio i due artigiani con il metro al collo e i fili da imbastitura sulla spalla sinistra del gilet. Per i più vecchi vicoli del centro storico, allora non ancora in fase di espansione, su per strette scalette o in locali bui a livello della strada vi erano le cucitrici di trapunte, fatte con lana più o meno pregiata. Vicino non mancava il materassaio sempre seduto allo scardasso per rinnovare la lana da materassi o da cuscini; la moglie in alcuni casi collaborava cucendo tende. Nei pressi dell’oratorio maschile dell’unica chiesa del paese vi era una rammendatrice, che si prestava ad aggiustare qualsiasi buco in tessuti o in maglieria. Era tanto brava che il rammendo finito appariva pressoché invisibile. Andava, nei suoi anni migliori, su e giù con l’ago secondo la trama della stoffa con punti così piccoli che il cliente, o meglio ancora l’occasionale osservatore, a stento distingueva la parte rammendata dal resto del capo di abbigliamento. In Via Scuole vi era una rammendatrice particolare: aggiustava le calze di nylon che allora le donne usavano portare con la cucitura di dietro. Oggi appare strano che ci fossero tali rammendatrici, ma soprattutto che vi fossero persone che facessero rammendare soprattutto calze.
Legate a queste attività vi erano mercerie grandi e piccole con i lunghi banconi di legno, dietro cui sovrastavano grandi armadi di decine di cassetti grandi e piccoli per aghi da cucito e da maglia, spagnolette, matassine, gomitoli, bottoni, nastri, nistole, passamaneria varia, cerniere, organze, fodere leggere, centritavola da ricamare, piccoli metri da sarta avvolgibili con grandi numeri per i centimetri e lineette per i millimetri. Proprio affacciati alla Piazza Malvezzi vi erano importanti negozi di tessuti, che tenevano nelle vaste scaffalature rotoli e risme di stoffe varie per abiti estivi e invernali, per la biancheria di casa, per l’abito da veglione. Con gesti sicuri i bottegai distendevano davanti al cliente le pezzature più diverse, certi di riuscire ad accontentare o a convincere anche la sarta più sofisticata o più restia.
Di tutto questo non resta più niente. Con l’apparire dei supermercati negli anni ’60, il moltiplicarsi delle industrie e dei negozi di confezioni, il mondo del cucito si è del tutto trasformato. Le sarte sono diventate rare e hanno dovuto modernizzare il loro lavoro. Lavorano per un’ élite che vuole ancora l’abito su misura. Le più hanno cessato l’attività o hanno ripiegato per l’opera di rifinitura di abiti già pronti e solo da adattare a questo o a quel cliente: accorciare, allungare, allargare, stringere; insomma operazioni di minutaglia da fare in fretta per la boutique che vende al compratore di passaggio attirato dal marchio della confezione nella lussuosa vetrina. Tutto in Piazza Malvezzi e nelle vie collaterali a Desenzano è più lussuoso, luminoso e variegato, ma aveva un suo fascino anche il mondo delle sartine.

Di: Amelia Dusi

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