Venezia – IL MONDO CHE NON C’ERA – L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue

| 26 maggio 2018
Collezione Ligabue - Il mondo che non c'era 1

Vita, costumi e cosmogonie delle culture Meso e Sudamericane prima di Colombo, raccontati da oltre 150 opere d’arte.

Tra la fine del XV e gli albori del XVI secolo l’Europa viene scossa da una scoperta epocale: le “Indie” – secondo Cristoforo Colombo – che approda il 12 ottobre 1492 sulle coste delle nuove terre. Un fatto, questo, che scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma-Grecia-Oriente; l’incontro di un nuovo Continente che – dirà poi l’antropologo Claude Lévi-Strauss – è forse l’evento più importante nella storia dell’umanità. Alcuni anni dopo il 1492 fu il grande esploratore Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Colombo non erano isole indiane al largo del “Cipango” (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un “Mundus Novus”, un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, “America”. Presso Palazzo Loredan, sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, è attualmente in corso una straordinaria mostra dedicata alle tante e diverse civiltà precolombiane che avevano prosperato per migliaia di anni nel continente americano prima dell’incontro con gli Europei, dagli Olmechi ai Maya, dagli Aztechi agli Inca. L’incontro di due civiltà che sono parte della medesima umanità. Un’umanità fatta di comunanze e differenze di cui ci si rende ben conto grazie alle opere esposte nella mostra promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, che racconta le antiche culture della cosiddetta “Mesoamerica” (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador), il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fino a Cile e Argentina): dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca. Un insieme di capolavori straordinari appartenenti ad una delle collezioni più complete e importanti in quest’ambito in Italia – la Collezione Ligabue – esposti al pubblico per la prima volta grazie a questo progetto. Ideata poco dopo la scomparsa di Giancarlo Ligabue (1931-2015) – imprenditore ma anche paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore e appassionato collezionista – questa esposizione ha inteso essere anche un omaggio alla sua figura da parte del figlio Inti, che con la Fondazione da lui creata continua l’impegno nell’attività culturale, nella ricerca scientifica e nella divulgazione dopo l’esperienza del Centro Studi e Ricerche fondato oltre quarant’anni fa anni fa dal padre. Oltre infatti ad aver organizzato più di 130 spedizioni in tutti i continenti, partecipando personalmente agli scavi e alle esplorazioni – con ritrovamenti memorabili conservati ora nelle collezioni museali dei diversi paesi – Giancarlo Ligabue ha anche dato vita negli anni, con acquisti mirati, a un’importante collezione d’oggetti d’arte, espressione di moltissime culture. Una parte di questa collezione è il cuore della mostra curata da Jacques Blazy specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud, che ha espresso il seguente pensiero: “L’arte, ci ricorda Octavio Paz, non è mai piatta “descrizione di quello che vedono i nostri occhi, è bensì rivelazione di ciò che è oltre l’apparenza…” È una metafora, una religione, un’idea dell’uomo e del cosmo.” Tra i membri del Comitato scientifico anche André Delpuech, Direttore del Musée de l’Homme – Muséum d’Histoire Nationale Naturelle di Parigi e già responsabile delle Collezioni delle Americhe al Musée du quai Branly e l’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig, entrambi anche componenti dell’omologo Comitato della Fondazione Ligabue. Ricordiamo che questa Istituzione aveva già organizzato, sempre restando nell’ambito di civiltà del passato, dal 20 Gennaio al 25 Aprile 2017, sempre nella stessa sede, un’altra importante rassegna dal titolo “Prima dell’Alfabeto. Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura. Ora qui vediamo esempi che vanno dalle rarissime maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya d’epoca classica preziose fonti d’informazione, con le loro decorazioni e iscrizioni, sulla civiltà e la scrittura di questa popolazione; dalle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi artisti surrealisti (con la loro evidente deformazione cranica, elaborate acconciature e il corpo appena abbozzato) alle sculture Mezcala tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore. Sempre dal Messico, statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C. – notevole esemplare in mostra la Grande Venere con la mani congiunte sul ventre – urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca con effige spesso antropomorfa, sculture Azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia (la prima ceramica prodotta in Sud America nel III millennio a.C.), oggetti Inca, tessuti e vasi della regione di Nazca, manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro. Si tratta in realtà di culture che in molta parte devono ancora essere e studiate e comprese: bisogna anche dirlo, annientate, annichilite ed ignorate per lunghi anni dopo la scoperta di quelle terre, da parte dei Conquistatores ammaliati solo dalle ricchezze materiali, autori di stragi e razzie. L’oro, come quello dei Tairona (puro o in una lega con rame chiamata “tumbaga”) spingerà nelle Ande Spagnoli ed avventurieri alla ricerca  dell’ “El Dorado”, uno dei grandi miti che alimentarono la Conquista. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture. Tantissimi dunque gli spunti tematici che una mostra come questa suggerisce, mostrando i diversi aspetti della vita e della cultura sviluppatisi al di là degli Oceani, ma anche i “debiti”, in termini di nuove tradizioni e colture, che l’Europa avrà nei confronti del Nuovo Mondo: pensiamo ad alcuni alimenti (cacao, pomodori, patate) che sono arrivati per mediazione delle cucine della Corte spagnola nella tradizione alimentare italiana e anche veneta, ma anche al gioco con il pallone “di gomma” che scopriamo – grazie alle opere in mostra e alle raffigurazioni sul tema – essere profondamente e anticamente radicato nella civiltà e nella ritualità mesoamericana. Quella sfera “misteriosa” stupì gli Europei quando, per la prima volta, videro esibirsi dei giocatori aztechi condotti da Cortés alla corte di Carlo V. Particolare invece il riferimento al mais, che troviamo addirittura personificato in mostra e che sul finire del Cinquecento era riportato nell’edizione veneziana dell’opera del medico spagnolo Nicolás Monardes, dedicata alle piante medicinali americane. Importato a Venezia dalla Spagna da Andrea Navagero alla fine degli anni ’20, questo cereale – che secondo Ramusio era coltivato nel Polesine (oggi in area basso veneta) sin dal 1554 – divenne l’ingrediente principale di polente. E se la “Repubblica”, pure estranea alla corsa al nuovo Continente, finì in realtà con il “conquistare” quelle terre grazie alla forza del proprio immaginario, al punto che nelle cronache del tempo tante città sull’acqua le furono paragonate o vennero chiamate da esploratori e conquistatori rifacendosi alla città veneta (in particolare la capitale azteca di Tenochtitlan fu spesso definita “un’altra Venezia” e raffigurata accanto ad essa) sarà la “Serenissima” uno dei principali centri propulsori di quella che potremmo definire come la “scoperta letteraria” delle Americhe. Gli stampatori veneziani furono infatti tra i principali protagonisti della rapida e massiccia diffusione europea delle notizie che giungevano dal Nuovo Mondo (Venezia venne superata solo da Parigi per numero di testi sulle Americhe pubblicati nel Cinquecento) e in alcuni casi i testi veneziani rappresentano le fonti più antiche, essendo andati perduti i relativi manoscritti.  Dopo il grande successo di pubblico ottenuto nelle precedenti tappe a Firenze, Rovereto e Napoli, anche Venezia è stata quindi onorata di ospitare questo importante progetto. Nello stesso spazio espositivo si tengono laboratori didattici rivolti a scuole primarie e secondarie di primo grado. Sito Internet di riferimento della mostra: www.ilmondochenoncera.it Prima di concludere un giusto cenno al bellissimo catalogo, a cura di Adriano Favaro, per anni responsabile del settore culturale del quotidiano “Il Gazzettino” e Direttore della rivista “Ligabue Magazine”. Particolare attenzione è stata rivolta alla veste grafica: un impaginato elegante e curato, foto di altissima qualità, con ingrandimenti emozionanti che consentono una lettura assolutamente inedita degli oggetti. Possiamo dire un’ opera d’arte a tutti gli effetti.

Palazzo Loredan – Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti; Campo Santo Stefano (nei pressi del Ponte dell’Accademia);   fino al 30 Giugno 2018; orari: da martedì a domenica 9-17; Biglietti: Intero 8 Euro, Ridotto 7 Euro, Ridotto speciale 4 Euro   (bambini dai 4 ai 12 anni compiuti); Per informazioni: Segreteria organizzativa, Tel. 041 2705616; www.fondazioneligabue.it

Fabio Giuliani

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