SUA MAESTA’ IL CAPUNSEL

| 6 agosto 2013
Capunsel

Quando ci si accinge a riconoscere un luogo anche dalla gastronomia si incontrano le diverse filosofie del fare cucina. Le sagge massaie di una volta, ottenevano dagli avanzi di cucina, nuove leccornie che accontentavano il palato dei loro mariti al ritorno dal lavoro dei campi e quindi ogni famiglia aveva una propria tradizione culinaria tramandata da madre a figlia o da suocera a nuora.

Il recupero di ciò che avanzava nel giorno di festa, invece, è patrimonio comune e non doveva essere buttato, in rispetto di chi faticava ad avere il necessario alimento ogni giorno. Soprattutto il pane era un peccato buttarlo perché avrebbe gridato vendetta. E’ così che tentativo dopo tentativo, risultato dopo risultato, gradimento dopo gradimento, si conquista nei secoli un piatto, che ridiventa il piatto della festa.Il capunsél, (termine dialettale che significa piccolo cappone) che nel titolo ho voluto dargli una impronta tedesca per le frequentazioni del principe Gonzaga al quale riconduciamo la tradizione, ma che credo possa essere solo questa in quanto a Solferino il Capunsél ha una storia locale e si rifà all’esperienza del borgo con il suo primo principe, l’illustrissimo Orazio Gonzaga, Principe, Marchese e Signore di Solferino.Si racconta infatti, che Egli frequentasse la corte imperiale di Vienna e si mise al servizio di Massimiliano II nelle campagne militari contro i turchi in Romania e che dopo aver commissionato il suo castello residenza sulle antiche fortificazioni di Solfarini, appena sopra alla contrada di mezzo, non fu molto presente nel suo castello principesco se non per banchetti con illustri ospiti. La cucina della corte era diretta probabilmente da una Scalco ma, praticamente, cucinavano le donne del borgo sottostante che stupivano gli ospiti con il cappone ripieno. Tutti quelli che hanno un po’ di dimestichezza con la cucina sanno che la forma assunta dal ripieno, dopo la cottura è un grosso “salamotto” fusiforme che probabilmente è la forma ispiratrice del capunsél contemporaneo, ed è per questo che si identifica con il diminutivo di cappone per un modo strano in cui si forma il linguaggio di comunicazione. A sostegno di questa ipotesi c’è anche un’altra espressione dialettale: el piè nome che viene dato al ripieno quando è cotto ed a Pozzolengo, paese bresciano ma di cultura morenica mantovana, i capunséi li chiamano i piè.A Solferino le donne del Borgo di Mezzo (Pozzo Catena) fino ad oltre la metà del secolo scorso mandavano i ragazzini a raccogliere le mandorle amare sul colle dei cipressi per pigiarle ed insaporire l’impasto dei capunséi, ma da quando nella cucina sono vietate perché moderatamente velenose, alcune nostre massaie l’hanno sostituito con l’amaretto e così il nostro capunsél di Solferino si distingue dal Capunsél dell’Alto Mantovano: Prodotto Agroalimentare Tradizionale, tutelato dalla D.G. 8/2297 del 5 aprile 2006 ( la stessa delibera che tutela anche il Tortello Amaro). Da quando le donne della contrada facevano la “cresta” all’impasto per il ripieno del cappone, per portare a casa un po’ della festa del principe, son passati più di quattrocento anni e quel ripieno bollito in brodo buono, condito al burro fuso al sapore di salvia, sbiancato con una bella nevicata di grana padano è presente nei menù dei migliori ristoranti ed agriturismi di tutto il comprensorio turistico del teatro morenico del Garda.

Luigi Lonardi

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