SPIGOLANDO

| 1 luglio 2000
Sirmione-Grotte-di-Catullo

IL TEMPO GIUBILARE
Dante (1265-1321), che fu presente alle celebrazioni indette da Bonifacio VIII nel 1300, descrisse nel Canto XVIII dell’Inferno le modalità di circolazione dei pellegrini: “come i Roman per l’esercito molto, / l’anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, / che da un lato tutti hanno la fronte / verso il castello e vanno a Santo Pietro; / da l’altra sponda vanno verso il monte”. Sei secoli più tardi, quando Leone XIII rimurò la porta sacra al termine dei riti del 1900, parve a Pascoli (1855-1912) che quell’atto solenne escludesse dalla gioia perenne i fedeli che pure volevano “passar di là”. Ed aggiunse: “O nostro primogenito, / puro tra i bissi puri, / le pietre che tu muri / con la gracile mano, / nel sepolcreto sembrano / chiudere i tuoi fratelli / tutti; con tre suggelli, / tutto il genere umano”.

CARDUCCI E IL PREMIO NOBEL
Dall’amico Giacomelli mi proviene un volume pubblicato nel 1964. L’opera uscita per i tipi dei Fratelli Fabbri, è dedicata a Giosuè Carducci (1835-1907), cui nel 1906 venne conferito il premio Nobel per la letteratura. All’anziano poeta le condizioni di salute non consentirono il viaggio a Stoccolma. Sicché il 10 dicembre, giorno nel quale ha tradizionalmente luogo la cerimonia di consegna dei prestigiosissimi riconoscimenti, il ministro barone Bildt si recò nella casa bolognese di Carducci. Quivi, letto “un caloroso discorso in italiano”, espletò la prevista formalità. Dopo l’uomo di stato, parlarono il sindaco e il rettore dell’Università. Con gli occhi gonfi di lacrime, il vate sussurrò queste parole all’illustre ospite: “Salutate il nobile popolo svedese, nobile nei suoi pensieri e nei suoi atti”. Poco tempo appresso, nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1907, in quell’austera dimora felsinea entrò – come scrive Mario Biagini – “una Visitatrice più grande della poesia”.

RIFLESSIONE
In un limpido occaso primaverile, ho riflettuto sulle mutazioni intervenute a Sirmione dall’epoca della mia giovinezza. Sui prati che conducevano alle ‘Grotte di Catullo’ sono fioriti gli alberghi. In compenso sono scomparsi i gelsi e si sono assai rarefatte le siepi. Scorgo appena qualche rara farfalla dove volavano foltissimi sciami. Si è persa la memoria del verde ramarro che “folgore pare, se la via attraversa”, secondo il padre Dante. Tuttavia ovunque si inneggia a “le magnifiche sorti e progressive” dell’industria turistica. Ed io non sono che la reliquia di un tempo che non ritornerà.

A proposito di una delusione leopardiana
Ritengo che la vita induca molti di noi a credere di non essere giustamente apprezzati ed a lamentare il mancato aiuto da parte di chi avrebbe potuto, o magari dovuto, concederlo. A parziale titolo di consolazione, rammento che il giovane Leopardi (1798-1837) – non ricco per la cattiva amministrazione del padre, conte Monaldo – scrisse varie lettere ad insigni (o presunte tali) personalità dell’epoca, al fine di ottenere un decoroso impiego, che gli consentisse di lasciare il “natio borgo selvaggio”. Ricevette da tutti complimenti per la sua arte e lusinghieri attestati di stima. Ma nessun concreto aiuto gli provenne. Sicché pare il caso di osservare che, fatte le debite eccezioni, è bene contare unicamente sulle nostre forze, senza sperare in improbabili ausili altrui. Non risolveremo forse al meglio i nostri problemi, ma ridurremo per certo il numero delle nostre delusioni.

Enrica Bonazzi Cànepa e il Pontefice
Enrica Bonazzi Cànepa mi ha scritto, a proposito del Carme 66 di Catullo, che “Conone appese alle stelle l’amore di Berenice perché per sempre gli uomini potessero contemplare e rivivere questo stupendo sentimento coniugale”. Nella medesima lettera la gentile poetessa gardonese ha pure trascritto quanto il cuore le aveva “dittato dentro” il 26 marzo 2000, ultimo giorno del pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terrasanta. Trascrivo di sèguito parole che mi appaiono davvero ispirate: “Anche la pace/ ha un prezzo/ ma se è amore/ che si dilata/ è il prezzo più onorevole/ che un popolo possa pagare/ È il trionfo più alto/ che una religione possa generare”.

L’Ateneo di Salò
Nel 1930, per i tipi di Giovanni Devoti, apparvero le ‘Memorie dell’Ateneo di Salò’. Con esse l’antica Accademia degli Unanimi, fondata il 20 maggio 1564 dall’umanista Giuseppe Milio Voltolina, ritornò in vita e si propose di rinnovare l’antica fiamma astenendosi “da ogni volgarità commerciale”. A tale fine venne ripresa la secolare divisa dell’Accademia, che rappresentava un alveare intorno al quale volavano delle api e che mostrava il motto ‘Idem ardor’.

Di: Mario Arduino

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