Desenzano del Garda: SARACINESCA RAPPRESENTATIVA VERACE

| 30 novembre 2006
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Elio Gnutti, pittore e scultore a Desenzano. Uno stile drammaticamente avvincente che si racconta in silenzio.

Intervista fuori e dentro con i segni di Elio Gnutti. Slalom complesso tra i cavalletti del pensiero, per un artista che probabilmente la parola la considera una suppellettile impicciona alla libera espressione. Da qui, da queste regole senza scrittura, ripassiamo l’arte di Gnutti dove c’è tutto. Ancora da qui e dall’ ambiente di lavoro, che veste con intensità pittura, scultura ed altre produzioni originali. “C’è poco da dire” è l’esordio di Elio tanto per capirci. Affermazione inserita nel contesto del suo studio che vive di un’anima propria senza legami. Un antro normale, ma che normale non è perché immerso in un avvincente catalogo rappresentativo. “Diciamo che dipingo dal 76 – spiega Gnutti – il motivo preciso non lo so. Ho studiato all’Istituto d’Arte. Dipingo e scolpisco probabilmente perché quello so fare, ma non mi si venga a chieder cos’è l’arte o cosa vuol dire essere artista oggi. Posso solo rispondere: non lo so!” Seduti davanti a questa verace saracinesca, appoggiamo lo sguardo sui lavori. Sono tanti. E di varie fattezze. Colpisce l’essenzialità rigorosa ricercata. Sia nei quadri che nelle sculture. Spettacoli interiori di rara intensità. Con l’allungata presenza delle figure umane, ombre allampanate in ipotesi di movimento silenzioso. Metronomo ritmico della rappresentazione, un colore che finge di scaricare tensioni ed angoscia che in realtà si alimentano. Uno stile drammaticamente avvincente, con le carte in regola per catalizzare il pathos di uno sguardo in sensibile ritardo di orientamento nello spazio. Ma orientarsi è importante? Oppure è uno schema obbligato, impercettibile al tatto dell’universo sensibile sostanziale? La questione di primo acchito risulta complessa. Elio Gnutti ne ribalta l’importanza adagiandola su un letto di emozioni tratteggiate come un anticipo di respiro creativo sorprendente. E sorpreso. Ingenuamente raccolto in un corollario di sogni e di incubi temerariamente disposti sul davanzale di un’anima misteriosa dai connotati di sofferenza sincera. Perché c’è sofferenza e sofferenza. C’è quella mistificante di un ego che non riconosce altro che il sé in esclusiva. Dolore dell’intimo, mescolato ad una supponenza personale che maschera entità raggelanti di parsimonia del sentimento. E c’è la sofferenza sublime, che è tutt’altra cosa. La pena dell’anima grande gemellata con il mondo, le cose, gli oggetti, le persone che si eleva nella malinconica dimensione rappresentativa dell’arte. Nel paradosso estetico formulato da Gnutti, percepiamo questo assunto globale. Un pulpito aggressivo di vita, da cui esplode una tensione, che dall’individuale estende la sua gloria affannata al mare magno affascinante e tragico della disperazione collettiva. Le nostre parole, ma quelle di Elio? “In passato mi esprimevo con l’astratto – racconta Gnutti osservando un quadro non ancora concluso e imbevuto in un viola spettacolare, frutto di spremiture di colore che non hanno risparmiato cavalletto, pavimento, aria – poi mi sono accorto che non portava a nulla. Adesso dipingo così. Meglio sulla tela non vergine. Di sicuro o mi dedico alla pittura o scolpisco, non posso fare le due cose assieme. Quando un quadro è finito me ne accorgo immediatamente, magari da una punta di colore appena appoggiata.” E tanto basti aggiungiamo noi che buttiamo lo sguardo qua e là osservando una finestra aperta, protetta da saracinesca a sbarre. “Non la chiudo mai. Estate ed Inverno”. Rimane la saracinesca verace a custodire libertà espressive senza parole.

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